
E' tutta musica leggera
Almamegretta, apologia di un mondo colorato e "bastardo"...
Noi siamo figli di Annibale
Meridionali, figli di Annibale
Sangue mediterraneo, figli di Annibale
"Tutti i materiali sonori provenienti da ogni angolo del pianeta ci appartengono, tutti i suoni che veicolano cultura, tradizione, storia, che ci ricollegano alle origini della vita umana".
Sono parole di Raiss (Gennaro Della Volpe), voce e leader degli Almamegretta, gruppo napoletano che nasce sullo scorcio degli anni '80. E disegnano l'utopia (realizzata) di una musica "eretica", "bastarda", variopinta, una miscela sonora contaminata, multietnica, trasversale. Una musica "totale", come un ribollente, colorito bazar vesuviano, dove si incrociano e si sovrappongono sensibilità latina, tradizione vocale partenopea, echi di culture mediterranee e afrotribali. La musica come un grande calderone, in una fusione "meticcia" che lancia ponti in tutte le direzioni. Il tutto esaltato dall'energia, fisicità e forza espressiva di Raiss, carismatico frontman. E dalla sua voce intensa, potente e intonatissima. Una voce soul, lamentosa, colma di pathos, da muezzin partenopeo. Gli Almamegretta: Raiss (che sostituirà la cantante Patrizia Di Fiore), Pierpaolo Polcari (tastiere), Massimo Severino (basso), subito sostituito da Tonino Borrelli. Un terzetto, nella formazione originaria, che ha saputo miscelare sinuose nenie arabeggianti, esotismi e suggestioni mediorientali, con il funky, i suoni elettronici, la passione del reggae e del dub giamaicano. Dub = duplicazione: musica semplificata, giocata sulla scansione della sola base ritmica, screziata da echi e vibrazioni estremamente suggestive. Ritmi terzomondisti, modali, fascinosi. Un'insistita, ricercata, avvolgente ripetitività, sottilmente ossessiva, narcotizzante, che ingenera una sorta di trance, un effetto realmente ipnotico, sciamanico. "Il dub è un modo di concepire la musica fondamentalmente psichedelico, onirico, ed è qualcosa che ha influenzato molto quello che noi suoniamo".
Musica pulsante, come il ritmo atavico del cuore, per veicolare messaggi impegnati, libertari, antirazzisti. E un'idea di società multietnica e "nomade", senza frontiere né confini, aperta all'Altro che tutti siamo, che è ognuno. All'inatteso umano, alla diversità e alla fraternità. Come nel loro portentoso primo vero album, del 1993, Animamigrante(traduzione del loro mome napoletano, Almamegretta,dall'antico latino volgarizzato).
Sanghe e anema sanghe e anema e nuje tenimmo sanghe e anema
Sanghe cavero sanghe putente arrevuotete ind'e viscere d'a gente
'A gente mia che ha sufferto sempe troppo
Ca pe' 1000 anne è stata sempe asotto
Anema d'o munno anema migrante scuotoliala scetala sta gente
(...)
E soffre ancora l'anema d'o munno soffre e nun sape pecchè
Pecchè sta a guerra immiezo a ggente o pecchè tu staje meglio e me
Dall'Africa 'o Mediterraneo st'anema nun se ferma maje
(Sanghe e anema)
La scommessa di un nuovo sound e di un mondo nuovo. Un fertile, creativo, eccitante incontro di culture. Una miscela originalissima, non intellettualistica, che si realizza magicamente nel ritmo, la loro personalissima cifra stilistica. In una energia positiva, una sorta di sciamanica ipnosi acustica, che tocca l'acme dell'intensità nelle esibizioni live. "Ci hanno sempre interessato le musiche che si potessero ballare, perché il problema di questi anni è che il cervello va da una parte mentre il corpo è incatenato in una gabbia, che lo rende schiavo del lavoro. Il nostro obiettivo è sempre stato di riavvicinare il cervello al corpo". Testi di forte impatto emotivo. Provocatori, spiazzanti. Contro il razzismo, la sua stupidità e la sua ferocia. Come la sarcastica e trascinante Fattallà, tra i solchi dello stesso disco:
Fattallà pecchè ccà nun ce può stà
Fattallà a casa mia nun ce può stà
Spazio vitale identità razziale
Ccà tutte quanti teneno l'orgoglio nazionale
(...)
Fattallà cho! Nun pozzo manco riciatà
Razza cultura nascita nazione
So' addiventate a droga d'a popolazione
Fattallà nunn'e capito fattallà
Fattallà insieme a nuje nun ce può stà
Canta Luca Bassanese, in un brano, Confini, con cui, nel 2004, vinse la XV edizione del Premio Musicultura; la benemerita rassegna canora marchigiana che, insieme al Premio Tenco, coltiva,in Italia, il prezioso orticello della canzone d'autore:
Lo vuoi capire che il mondo non è solo casa tua?
E non vi sono immigrati ma solo viandanti
E non vi sono stranieri ma solo vicini
Non vi sono confini, non vi sono confini
Nessuno può rubarti nulla
Se ciò che hai di più caro è la tua coscienza
Nessuno può rubarti nulla
Se ciò che hai di più caro sono i tuoi pensieri
(Confini)
Figli di Annibale è una ballata di struggente intensità, un inno all'Africa, a "Mama Africa".
Annibale, mitico condottiero cartaginese (III sec. a.C.), grande generale nero, il più grande dell'antichità. Audace, freddo, intuitivo, pianificatore di geniali soluzioni tattiche, che sembrano azzardi folli, temerari. Annibale che sbaraglia gli Iberi e decide poi di sferrare un colpo al cuore a Roma, la superba, la grande nemica. E allora tenta un'ardita, inaudita scommessa, che sembra dettata dall'eroismo, certo, ma più ancora dalla pazzia. Con i suoi uomini, circa 26.000 soldati (erano sui 100.000, originariamente), 15.000 cavalli e 37 elefanti, attraversa, verso la fine di settembre, nel 218 a.C., la millenaria muraglia delle Alpi. Optando per un sentiero poco battuto e affrontando, per difendersi dagli attacchi di altre popolazioni locali, i disagi più spaventosi, all'altezza "impossibile" dei 3.000 metri. Vincendo il freddo, il gelo, le bufere, per sorprendere i Romani alle spalle, sbaragliarne gli eserciti, portare morte e distruzione in Italia. È la fase iniziale della Seconda Guerra Punica. Quando arriva nella Penisola, ha perso migliaia dei suoi militi, ai quali ha imposto una marcia inumana e leggendaria. Ma è un dio, che ha piegato la natura e vinto il destino. Che si muove, nei suoi spostamenti, come dentro una nuvola di terrore e ammirazione. E dilaga, inanella vittorie, sparge devastazione e morte. Roma è in ginocchio, ma con una mossa inattesa, imprevedibile, la evita, sceglie di "isolarla". Di non assediarla, convincendo i suoi alleati, i popoli italici insofferenti al suo dominio, a questo. E vira a sud, per assestarle, infine, il colpo mortale. E nell'inferno pugliese di Canne, con un capolavoro tattico, di astute e snervanti mosse e contromosse, Annibale sconfisse i Romani; restò in Italia da padrone per quindici o vent'anni. Ecco perché molti italiani hanno la pelle scura, ecco perché molti italiani hanno i capelli scuri. Poi (ma questo, ora, qui, ci interessa meno) smarrisce la sua "buona stella". Si "impantana", tra gli anni che pesano ormai sulle spalle, la fortuna che si dimentica di assisterlo e il potere che vede franare e scivolar via, come acqua tra le dita. Non riuscirà a prendere Roma e a Zama subirà la grande, irreparabile sconfitta, ad opera di Scipione Emiliano. Si rifugerà infine in Siria. E ai Romani che non perdonano, lo braccano, e chiedono al re di Bitinia (dove infine lo scoprono) la sua estradizione, rifiuterà di consegnarsi come prigioniero. E risponderà trangugiando stoicamente il veleno che conservava, incastonato, nell'anello. Un gesto che lo consegna infine, libero e trionfante, alla morte. E ne ingigantisce il mito sulla ribalta della storia. Scrive Paolo Rumiz, in Annibale, libro dedicato alla sua figura leggendaria: "Ci hanno provato in molti a passare le Alpi col pachiderma al seguito, con tanto di sponsor e colorate gualdrappe pubblicitarie, ma sempre i giganti arrivavano a valle morti di freddo o di sete, assediati da giornalisti e scolaresche. Passavano, certo, ma nessuno riusciva a dimostrare un bel niente. Tranne una cosa: il mito si rafforzava, anziché affievolirsi, davanti alla pochezza dei contemporanei. L'ombra di Annibale giganteggiava di fronte a quegli sforzi ridicoli. Il grande mistero della montagna violata non per un valico qualunque, ma per la più formidabile delle barriere messa lì dagli dèi a blindare l'integrità territoriale dell'Italia, si incarnava in lui, e solamente in lui. Nell'uomo che per primo aveva varcato quella soglia col più gigantesco dei mammiferi terrestri. (...) Quale misteriosa energia guidava Annibale verso quella meta dopo aver perso tre quarti dei suoi uomini? Non poteva essere solo il desiderio di conquista o di vendetta. Era altro. Forse il sogno".
Annibale, grande generale nero
Con una schiera di elefanti attraversasti le Alpi
E ne uscisti tutto intero
A quei tempi gli europei non riuscivano a passarle neanche a piedi
Ma tu Annibale, grande generale nero
Tu le passasti con un mare di elefanti
Lo sapete quanto sono grossi e lenti gli elefanti?
(...)
Un po' del sangue di Annibale è rimasto a tutti quanti nelle vene
Sì, è rimasto a tutti quanti nelle vene
(...)
Ecco perché, ecco perché noi siamo i figli di Annibale
Chissà se Annibale aveva davvero la pelle nera, come disse Malcom X. O se, più probabilmente, stando alla genetica e al riscontro dell'esperienza, fosse invece, il suo colore, derivato da un crogiuolo di razze, nella Tunisia del III sec. a.C. Ma non è qui il punto. E ragionare su questo o su altre inesattezze del testo (dalle quali, peraltro, gli "Alma" ci avevano messo in guardia) non sposta di un millimetro il baricentro della questione, non muta la sostanza delle cose. Perché qui ci muoviamo non nell'ambito della storiografia, ma dell'epica, della leggenda, del mito. E del sogno: il sogno di un mondo, auspicato dalla band partenopea ma anche da chi scrive, in cui la parola razzismo sia soltanto un relitto archeologico del passato e i figli un giorno, come scrive il poeta francese Paul Éluard, rideranno della leggenda nera dove un uomo/lacrima in solitudine.
Figli di Annibale sarà anche il titolo di un film (con Silvio Orlando e Diego Abatantuono) di Davide Ferrario, che inserirà la ballata nella colonna sonora. "Il pezzo degli Almamegretta mi è venuto in mente montando il film, per il suo ritmo e anche perché i due protagonisti, come Annibale, dopo essere andati al nord tornano al sud. Sono due figli di Annibale, neri dentro, precari, mediterranei".
Il brano degli "Alma" farà anche parte della colonna sonora di Sud, un film di Gabriele Salvatores.
La band partenopea viene alla ribalta nel '92, con il mini-album Figli di Annibale. Seguito poi da Animamigrante, un album vero e proprio, che raccoglie tracce dell'EP e nuove composizioni. E che ottiene la Targa Tenco come miglior album d'esordio. Qualche anno dopo (1995) esce il bellissimo Sanacore 1.9.9.5., che bissa il riconoscimento sanremese, in questo caso come miglior album in dialetto. Il viscerale e musicale dialetto napoletano. Nel 2002 Raiss, l'anima del gruppo, sceglie di intraprendere una carriera solista. E nel 2004 la morte, in un incidente stradale, del membro romano della band, il dub-maker Stefano Facchielli (era entrato in formazione nel 1993, con Animamigrante), il creatore del loro inconfondibile sound. Solare, palpitante, volteggiante tra il Vesuvio e Kingston, tra il golfo di Napoli e il calore delle spiagge giamaicane. Gli "Alma" sforneranno altri ottimi dischi, dall'esplosione ritmica, tra dance ed elettronica, di Lingo (disco di platino 1998) a 4/4 (in collaborazione con Mauro Pagani), che coniuga impegno e musica da ballo, spirito ludico e critica sociale. La magia degli inizi, però, non si ripeterà più. Quel potente messaggio antirazzista, l'apologia di un mondo "colorato" e di una "cultura bastarda", veicolati dal quel memorabile brano e omonimo disco-manifesto, è ancora, tuttavia, più che mai vivo e urgente.
Cantava Gino Paoli, in quell'altra ballata memorabile, Ehi ma' (1988); un'autentica bandiera per una società libera e vera. Una società, un mondo, di cui ancora, purtroppo, non si scorge traccia all'orizzonte:
Cristo ha l'anima d'un Arlecchino
Con tutti i colori dell'arcobaleno
Eh sì, forse è proprio così
Sarà vero che il colore è solo luce
E la luce è la speranza
E che siamo noi la speranza
Camminando noi verso il sole
Dentro il sole che salirà
Nero può essere bandiera
Per un'idea libera e vera
Ehi ma' un giorno verrà
Che Caino non ammazzerà
Eh no, suo fratello mai più
Un mondo, il nostro, assediato da localismi, nazionalismi, sovranismi e leghismi assortiti. E un tempo di egoistiche chiusure, di bieche intolleranze, di brutali ostilità; per chi giunge dalla periferia del mondo, scaricato da un vecchio furgone Ford. Come il Nero di De Gregori (nell'album Terra di nessuno, del 1987), che balla e cammina e canta sotto il cielo di Latina, grande città del nord. Una feroce, cruda accusa al razzismo, sul ritmo allegramente beffardo e spiazzante, fintamente giocoso e spensierato, di un'ubriacante honky tonky:
Preso a calci dalla polizia
Incatenato a un treno da un foglio di via
Oppure usato per un falò
Il Nero te lo ricordi il Nero quando arrivò?
Che si sbarbava con un pezzo di specchio
Un orecchio si tagliò
E andava sanguinando avanti e indietro
E rideva e diceva "Sono Van Gogh!"
E aveva dentro agli occhi una malattia
O chissà quale tipo di ipocondria
D'ipocondria d'amor
Il Nero che peste il Nero!
"È una canzone su una categoria di perdenti", spiegherà in un'intervista il cantante romano. "Oggi si parla sempre poco dei perdenti, si parla solo dei vincenti, perché i vincenti fanno notizia, i vincenti sono sempre ben pettinati. Parla di un immigrato di colore, ma non vorrei fosse vista soltanto con riferimento agli immigrati di colore. Ci sono dei neri anche con la pelle bianchissima". E ancora: "Fa un po' impressione in questo paese cresciuto e prosperato tra abusi e condoni, e centinaia di miliardi risucchiati nel nulla, senza cinture di sicurezza, senza moralità fiscale, senza decenza, tra gas di scarico non rilevati e adolescenti in motorino senza casco, ritrovarsi a fare i conti con la parola legalità solo perché ci fa comodo per sbarazzarci del negro sotto casa. Sarà anche giusto, certo, ma vorrei proprio vedere quanti fra questi marciatori così assetati di diritto sarebbero disposti a farsi spulciare la denuncia dei redditi, o se davvero non hanno mai pagato per avere una licenza o una concessione, o non hanno mai finto una malattia per non andare a lavorare. La legalità dovrebbe venire da lontano, da un'altra cultura della democrazia. La legalità non si improvvisa in una notte, non si evoca come un fantasma shakespeariano da far poi comodamente sparire alla prime luci del giorno".
Un tempo, quello che ci tocca vivere, senza memoria, senza speranza, saturo di menzogne, di affabile ferocia, prosciugato di pietà, gremito di parole sbraitate, abiette, miserabili, ingozzate di polvere e fiele, concimate di paura. Insufflate di cinismo e di odio, sempre alacre, solerte e operoso, sempre pronto a nuovi compiti. L'odio, che sa il fatto suo.
Guardate com'è sempre efficiente,
come si mantiene in forma
nel nostro secolo l'odio.
Con quanta facilità supera gli ostacoli.
Come gli è facile avventarsi, agguantare.
(...)
Oh, ma quegli altri sentimenti -
malaticci e fiacchi.
Da quando la fratellanza
può contare sulle folle?
La compassione è mai
giunta prima al traguardo?
Il dubbio quanti volenterosi trascina?
Lui solo trascina, che sa il fatto suo.
Capace, sveglio, molto laborioso.
Occorre dire quante canzoni ha composto?
Quante pagine ha scritto nei libri di storia?
Quanti tappeti umani ha disteso
su quante piazze, stadi?
Diciamoci la verità:
sa creare bellezza.
Splendidi i suoi bagliori nella notte nera.
Magnifiche le nubi degli scoppi nell'alba rosata.
Innegabile è il pathos delle rovine
e l'umorismo grasso
della colonna che vigorosa le sovrasta.
È un maestro del contrasto
tra fracasso e silenzio,
tra sangue rosso e neve bianca.
E soprattutto non lo annoia mai
Il motivo del lindo carnefice
Sopra la vittima insozzata.
In ogni istante è pronto a nuovi compiti.
Se deve aspettare, aspetterà.
Lo dicono cieco. Cieco?
Ha la vista acuta del cecchino
e guarda risoluto al futuro
- lui solo.
Così Wisława Szymborska, nelle lucide, sconvolgenti parole di una sua vibrante poesia, L'odio. In cui, con il suo impareggiabile stile anti-retorico, anti-sublime, con la raffinata levità e leggerezza del suo dettato colloquiale (una leggerezza pungente, interrogativa, mai banale e assertiva) si sporge sui secoli bui della storia, e si affaccia sul nostro tempo, sul nostro triste presente. Per una riflessione profonda e inquietante sull'azione velenosa e mortifera di questo sentimento. Sulla sua perversa capacità (quasi un'ancestrale maledizione) di compattare gli uomini e di generare una sinistra, demoniaca bellezza. Una poesia in cui si mescolano cupo orrore e stremata ironia, distacco oggettivo dalle cose, dal mondo, e profondo, intimo, empatico coinvolgimento con la sorte del genere umano. Compassione per le nostre vite e richiamo a un'individuale esercizio quotidiano di ragionamento, per costruire un percorso di resistenza. Un distacco che non è mai, dunque, Disattenzione, come il titolo di un'altra sua lirica. Ma richiamo accorato a un'attenzione straordinaria, più acuta e profonda, a una partecipazione stupita a questo gioco con regole ignote. Perché:
La realtà esige
che si dica anche questo:
la vita continua.
Continua a Canne e a Borodino
e a Kosovo Polje e a Guernica.
(...)
Questo orribile mondo non è privo di grazie,
non è senza mattini
per cui valga la pena svegliarsi.
(La realtà esige)
La vita - è il solo modo
per coprirsi di foglie,
prendere fiato sulla sabbia,
sollevarsi sulle ali
(...)
distinguere il dolore
da tutto ciò che dolore non è;
(...)
e almeno per una volta
inciampare in una pietra,
bagnarsi in qualche pioggia,
perdere le chiavi tra l'erba;
e seguire con gli occhi una scintilla nel vento
(Un appunto)
Un appello alla vita, contro la morte. La vita che sola ci può salvare, con le sue miracolose epifanie, con la dolcezza dei suoi momenti. Con, soprattutto, il pane nutriente della vera bellezza, non quella inquietante, nefasta, "creata" dall'odio. Come nell'incanto della Lattaia di Veermer. In quella luce grigia e perlacea che filtra silenziosa da una finestra e ruscella perle bianche, scintille smaglianti, sulle pareti usurate, scrostate di una cucina, su un ruvido cesto di vimini, sulla crosta croccante del pane. Nel rintocco di un attimo sospeso nell'eternità, ritagliato nella sacralità del tranquillo scorrere delle ore, del tempo che fluisce come bianca, stillante cascata di latte da una brocca. Limpidi frammenti di eternità. Quieta beatitudine, calma voluttuosa e sognante, mirabile incanto della vita che silenziosa riposa.
Finché quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento
giorno dopo giorno versa
il latte dalla brocca nella scodella,
il Mondo non merita
la fine del mondo.
(Vermeer)
Risuonano, in conclusione, ancora attualissime e per nulla invecchiate le parole di una meravigliosa canzone di Ivano Fossati, composta trent'anni fa: Mio fratello che guardi il mondo. Una lettera all'uomo, un appello alla sua generosità, al suo altruismo, da sopra la pioggia, come da sottotitolo dell'album Lindbergh (1992), che la ospita.
Mio fratello che guardi il mondo
E il mondo non somiglia a te
Mio fratello che guardi il cielo
E il cielo non ti guarda
Se c'è una strada sotto il mare
Prima o poi ci troverà
Se non c'è strada dentro il cuore degli altri
Prima o poi si traccerà.
Lo sguardo poetico e illuminato del Volatore, alto sulle miserie degli uomini, potrà ancora sorreggerci e orientarci nel cammino: "La strada della speranza è sempre aperta, la possiamo trovare. O meglio: è la strada che troverà noi".