E' tutta musica leggera

Angelo Branduardi, la poesia tra le note

Mi piace spettinato camminare
Col capo sulle spalle come un lume
Così mi diverto a rischiarare
Il vostro autunno senza piume

Metà anni '70. Un ragazzo magrissimo, con una enorme cesta di capelli, studi di violino classico alle spalle e una passione per il suggestivo mondo nordico, la musica irlandese, Alan Stivell, Donovan, Cat Stevens, si affaccia sulla scena musicale cantautorale "impegnata" di quegli anni. Come un alieno, un folletto sputato fuori da un mondo di fiaba. Atmosfere ipnotiche, echi, richiami, fascinose musiche d'altri tempi, eseguite da antichi strumenti, evocatori di un lontano passato, costituiscono il suo biglietto da visita. E, fin da subito, la sua "cifra" originalissima, inconfondibile.

"Sono un goloso, amo e ascolto tanta musica di tutti i tipi: da Bach, Sibelius, Mahler, ai flauti di Pan della Melanesia, ai canti del Mali. E poiché non ho mai sostenuto di essere un artista, uso queste varie cose che appartengono un po' al passato, un po' al presente. E che magari non hanno nulla in comune fra loro. Le mischio con la mia tecnica artigianale".

I testi, dall'impianto esoterico, onirico, fiabesco, antiche nenie, leggende, ballate, danze popolari, introducono in una temporalità assoluta, sospesa. Quanto di più lontano e inassimilabile al contesto sociale e politico dell'epoca. Trionfa l'assoluta poeticità, un'esigenza di purezza stilistica, espressiva, l'azzeramento sistematico dei significati, la riesumazione dell'antico, eterno connubio musica-poesia. In un universo di riferimento che va dai lirici greci alla poesia provenzale, dal folk celtico alla favolistica orientale alle suggestioni letterarie novecentesche.

Dopo un esordio piuttosto incolore, con l'album Branduardi '74, il grande successo, di pubblico e di critica e la definitiva consacrazione artistica, arriveranno nel 1976, con Alla fiera dell'est. Album ispirato, armonioso, colmo di fascinazione e suggestioni. Forse il vertice assoluto della sua produzione. Con quella celeberrima filastrocca folk del titolo, ispirata a un canto corale della Pasqua ebraica. Un brano da tre milioni di copie, un classico (e un intramontabile tormentone) che lo lancerà anche in Europa, e che sarà una delle canzoncine più gettonate per i bambini delle scuole materne.

Alla fiera dell'est per due soldi

Un topolino mio padre comprò

E venne il gatto che si mangiò il topo

Che al mercato mio padre comprò

Alla fiera dell'est, per due soldi

Un topolino mio padre comprò

E venne il cane che morse il gatto

Che si mangiò il topo

Che al mercato mio padre comprò

La sua struttura cantilenante, iterativa, si presterà a infinite parodie. Strepitosa, tra le altre, quella romanesca e "burina" di Latte e i suoi derivati (alias Lillo&Greg), che prende, per l'occasione, il nome di Alla fiera del Tufello:

Alla fiera del Tufello pe' du scudi

Er patata la madre scippò

E venne er catena che corcò er patata

Che pe' du scudi la madre scippò

L'anno precedente era uscito La luna, in cui Branduardi metteva perfettamente a fuoco la propria ispirazione. Un disco di canzoni bellissime (a partire dal brano omonimo), di atmosfere sommesse, eteree, incantante.

La luna è però, soprattutto, l'album di Confessioni di un malandrino. Branduardi, che ha 22 anni, riprende (nella bella traduzione dello slavista Renato Poggioli) il testo di una poesia russa del 1920, Confessioni di un teppista (o di un mascalzone), di Sergej Esenin. Una ballata da pelle d'oca, aspra e dolce, lunghissima, affascinante, struggente. In cui il poeta, straordinario esponente della lirica contadina sovietica, canta la sua vita apparentemente libera e spensierata (in realtà profondamente scissa, inquieta, tormentata), in un abbraccio panico, vivo, ardente, con la natura, gli animali, le stagioni.

Esenin era convinto che la rivoluzione, nella Russia zarista degli anni '20 del Novecento, dovesse muovere dal mondo contadino, dai campi; non dal proletariato, dalle fabbriche, dalle officine. Una visione poetica agreste, bucolica, che lo vedrà amaramente soccombere ai celebrati colleghi "cittadini", Blok e Majakovskij su tutti. Che invece, più "allineati", in questa particolare temperie sociale e artistica, trionferanno e lo oscureranno. E soccombere alla rivoluzione stessa, che spazzerà via quel mondo. Esenin era lontanissimo dalla visione di Majakovskij, dalla sua lirica urbano-industriale, dai suoi versi rivoluzionari e "bolscevichi". Da quella antitradizione futurista che, come il Futurismo di Marinetti, in Italia, ripudiava recisamente tutto il passato, il vecchiume accademico. E, nella sua febbrilità, nel suo dinamismo, celebrava la bellezza del paesaggio cittadino, la "nuova natura". Con i suoi marciapiedi, gli ascensori, il fumo e i lampioni delle strade, invece della luna nel cielo. Ma sarà Esenin a regalarci, sul tappeto magnifico dei versi, le immagini più liriche, vivide e toccanti della Russia post-zarista. E la sua sconfitta non sarà una resa. Piuttosto, invece, un'intima, personale vittoria.

Nelle Confessioni emerge un senso di infinita inadeguatezza, un sentimento di estraneità, di solitudine e isolamento. Il profondo disagio esistenziale di un uomo in bilico tra due epoche, preso al confine tra due mondi. Quello rurale, patriarcale, arcaico, delle sue origini contadine e quello cittadino, "luccicante", ricco e borghese, di una Mosca dove, fuggito da casa, approderà diciasettenne ( sarà poi a San Pietroburgo), alla conquisa del mondo letterario. E per "diventare poeta".

Esenin si muove in equilibrio come su una faglia esistenziale. Tra il suo non essere più un figlio dei campi, affondato, come gli alberi, nella terra, esposto al ritmo eterno delle stagioni, e il suo non essere ancora pienamente un intellettuale. Non voler essere, soprattutto, un intellettuale "organico", ligio e supino alle direttive del partito e del regime. Emerge anche, infatti, nella lirica, insieme all'amore sconfinato per la terra natia, per la patria, benché afflitta da tronchi rugginosi (il loro sangue secco, rappreso, come dolente immagine della Russia sofferente), una volontà ostinata, indomabile, di rivolta. Che, con piglio spavaldo e una punta di stoicismo, sa anche irridere l'avverso destino.

Mi piace spettinato camminare

Col capo sulle spalle come un lume

Così mi diverto a rischiarare

Il vostro autunno senza piume

Mi piace che mi grandini sul viso

La fitta sassaiola dell'ingiuria

Mi agguanto solo per sentirmi vivo

Al guscio della mia capigliatura

Esenin, poeta geniale, ribelle e disertore, nell'irruenza della sua anima irascibile e rivoluzionaria, aveva profetizzato lo sfacelo dell'utopia comunista e criticato aspramente il regime sovietico. Che lo emarginò (a 18 anni risultava già schedato dalla polizia zarista), mise fuorilegge le sue poesie, ed ebbe forse un posto nella sua morte.

"Impulsivo, agitato da diversi stati d'animo, capace di passare così dall'umiltà al teppismo, dalla preghiera al sacrilegio. Dolci note di devozione e burrascose immagini volgari. Così di lui, nella mia stupita memoria", scrive Jonathan Giustini, "il sommo Angelo Maria Ripellino".

Bellissimo, romantico, bisessuale, il poeta vide il suo ultimo matrimonio (quattro ne aveva contratti nella sua vita) infestato dagli scandali. Quindici mesi di inferno. La moglie, la famosa ballerina americana Isadora Duncan (18 anni più di lui),la fondatrice della danza moderna, che ballava scalza, sull'onda del ritmo e dell'energia della natura, lo esibiva, nei salotti occidentali e in giro per il mondo, come un marito-oggetto. Con i suoi occhi azzurri e i riccioli biondi della sua "testa dorata" (così, affettuosamente, lo chiamava). Distrutto dall'alcool, dalle critiche degli intellettuali, che gli giravano al largo, dall'esaurimento nervoso che lo costrinse, sullo scorcio della sua esistenza, in un ospedale psichiatrico, si impiccò a trent'anni, nel 1925, ai tubi del riscaldamento di un hotel di San Pietroburgo, con un cappio al collo. Ma forse si trattò, secondo altre ipotesi, di un assassinio, commissionato dalle autorità sovietiche. Poco prima di morire si tagliò le vene e scrisse, col sangue, la sua ultima poesia. Una poesia d'amore, dedicata al suo poeta-amante, Anatoli Marienhof:

Arrivederci, amico mio,

senza strette di mano, senza parole,

Non rattristarti e niente

malinconia sulle ciglia:

morire in questa vita non è nuovo,

ma più nuovo non è nemmeno vivere.

Le sue opere continuarono ad essere bandite, in Russia, fino al 1966. Celebrato da Marina Cvtaeva e dallo stesso Majakovskij, in Italia fu proprio Branduardi, capo spettinato come il suo, da menestrello fuori del tempo, a farlo conoscere. E la sua versione nulla toglie all'originale. Gli conferisce, semmai, una maggiore suggestione, una meravigliosa musicalità e cantabilità, che la esalta e la rende indimenticabile.

Un dolce tappeto di accordi di chitarra. Due chitarre acustiche, quelle di Branduardi e di Maurizio Fabrizio. Un prezioso intreccio di arpeggi che, senza mai smarrire le singole, autonome linee melodiche, si intersecano, dialogano, si rincorrono, in un unico, straordinario ricamo "merlettato". Un raffinato impasto acustico, che resuscita la musica di corte medievale, lo spirito rinascimentale e la tradizione mitteleuropea. Le note danzano insieme alle parole. Un delicatissimo tappeto sonoro, un'incantata leggerezza. "Maurizio Fabrizio è stato per la mia musica il compagno più importante: ha arrangiato i miei dischi "storici" e, in varie riprese, ha suonato con me sui palchi di tutta l'Europa. Io non amo in modo particolare la chitarra, ma il mio "accrocchio" con lui è perfetto: musicalmente parlando, Maurizio è l'altra metà della mia mela".

Il poeta, malato d'infanzia e di ricordi, ripensa al suo paese d'origine, ai suoi poveri genitori contadini, ormai invecchiati, che non potranno capire un figlio che gira con scarpe verniciate, il cilindro in testa e compone versi.

Davanti ai nostri occhi, ammirati, scorrono vivide immagini, colme di fervore e passione, di immedicabile, dolcissima e lancinante nostalgia. Immagini della sua terra, la Grande Madre Russia, di una natura fiabesca e sconfinata (quella natura che ha tanta parte nell'universo poetico di Branduardi), in cui ogni elemento (alberi, stagno, animali...) sembra possedere un volto, e un'anima.

Paesaggi campestri, abitudini, gesti, riti millenari, che scandiscono il ritmo immutabile della vita contadina, nel lento, eterno trascolorare delle stagioni. Le parole di Esenin grondano di rivolta e malinconia, di un lirismo intriso di magia agreste e ribellione, del sogno utopico di tornare alla sua amata Rus natale. Specchio di un cuore che le ingiurie del destino, il tempo, la storia, non hanno, intimamente, minimamente intaccato:

Ma sopravvive in lui la frenesia

Di un vecchio mariuolo di campagna

E ad ogni insegna di macelleria

La vacca si inchina sua compagna

Parole che toccano, emozionano. Che, inanellate e cullate dentro una meravigliosa cornice acustica, dalla voce dolce, sommessa e tremula di Branduardi, catturano, commuovono, e vanno dritte al cuore.

Ed in mente mi torna quello stagno

Che le canne e il muschio hanno sommerso

Ed i miei che non sanno di avere

Un figlio che compone versi

Ma mi vogliono bene come ai campi

Alla pelle ed alla pioggia di stagione

Raro sarà che chi mi offende

Scampi alle punte del forcone

(...)

Ma sopravvive in lui la frenesia

Di un vecchio mariuolo di campagna

E ad ogni insegna di macelleria

La vacca si inchina sua compagna

E quando incontra un vetturino

Gli torna in mente il suo concio natale

E vorrebbe la coda del ronzino

Regger come strascico nuziale

(...)

Son malato d'infanzia e di ricordi

E di freschi crepuscoli d'aprile

Sembra quasi che l'acero si curvi

Per riscaldarsi e poi dormire

(...)

Buona notte alla falce della luna

Sì cheta mentre l'aria si fa bruna

Dalla finestra mia voglio gridare

Contro il disco della luna (dove gridare sostituisce pisciare; una variazione nel testo, rispetto alla traduzione di Poggioli, imposta dalla censura).

La notte è così tersa

Qui forse anche il morire non fa male

Che importa se il mio spirito è perverso

E dal mio dorso penzola un fanale

(...)

Dalla mia testa come uva matura

Gocciola il folle vino delle chiome

Voglio essere una gialla velatura

Gonfia verso un paese senza nome

Un verso della ballata, La fitta sassaiola dell'ingiuria, sarà anche il titolo di una canzone in cui Caparezza, rapper "testa riccia" (dal dialetto della sua Molfetta) curiosamente anche lui, per la sua chioma crespa e vaporosa, remixerà, nel 2000, alcune parole del capolavoro di Esenin.

Una vita, quella del "poeta contadino", forse il più amato dal popolo russo, irrequieta, ribelle, straripante di passioni amorose e di poesia, sigillata da un tragico epilogo. Che si apparenta, in una "fratellanza emotiva, sentimentale", a quella randagia, intensa e drammatica, di Marina Cvetaeva. Anch'essa tra le voci più alte e originali della poesia russa del Novecento. La voce della desolazione umana.

Un'esistenza colma d'amore e di dolore, estasi e tormento, ingorgata tra rivoluzioni, guerre, esilio (visse in varie città europee, tornando in patria solo due anni prima della morte), miseria, fame (così tanta neve, così poco pane). Una donna irrefrenabile e vorace, affamata di poesia, squassata da travolgenti passioni, tra cui quelle letterarie per Rilke e Pasternak. Nei miei sentimenti, come in quelli dei bambini, non esistono gradi.

L'amore

è lama? è fuoco?

Più quietamente - perché

tanta enfasi?

È dolore che è conosciuto come

gli occhi conoscono il palmo della mano

come le labbra sanno

del proprio figlio il nome

Marina Cvetaeva, con la sua potente energia espressiva, la sua istintiva smisuratezza: Io mi sono sempre fatta a pezzi, e tutti i miei versi sono, letteralmente, frammenti argentei di cuore.

Dopo la fucilazione, da parte dei bolscevichi, del marito, Sergej Efron, come traditore, nemico del popolo (era confluito nell'armata bianca, controrivoluzionaria; la poetessa amava gli eroi perdenti); dopo la deportazione, in un gulag, della figlia primogenita, e la morte di un'altra per denutrizione, in un orfanotrofio dove, perso il lavoro, in una Mosca preda di una terribile carestia, era stata costretta a lasciarla, Marina sceglierà anche lei, come Esenin, di porre tragicamente fine ai suoi giorni. Svuotata, fiaccata, emotivamente sfinita, affondata ormai in una totale indigenza, sola in casa nell'isba che aveva affittato, salirà, una domenica mattina, il 31 agosto 1941, su una sedia e si impiccherà, legando una corda attorno a una trave. Aveva scritto, in una delle sue ultime lettere: "Già da un anno cerco con gli occhi un gancio... Da un anno prendo le misure della morte".

Anche per lei, come per Esenin, fu solo negli anni '60, con la pubblicazione delle sue opere, che avvenne la riabilitazione letteraria, la riemersione dall'oblio. Verrà sepolta in una fossa comune, lei che avrebbe tanto desiderato giacere sotto un cespuglio di sambuco, dove crescono le fragole più rosse e più grosse.

Cammini, a me somigliante,

gli occhi puntando in basso.

Io li ho abbassati - anche!

Passante, fermati!

Leggi - di ranuncoli

e di papaveri colto un mazzetto

- che io mi chiamavo Marina

e quanti anni avevo.

(...)

Strappa uno stelo selvatico per te

e una bacca - subito dopo.

Niente è più grosso e più dolce

d'una fragola di cimitero.

Solo non stare così tetro,

la testa chinata sul petto.

Con leggerezza pensami,

con leggerezza dimenticami.

Come t'investe il raggio di sole!

Sei tutto in un polverio dorato...

E che almeno però non ti turbi

La mia voce di sottoterra

Numerosi sono, nella discografia di Branduardi, gli sconfinamenti nella poesia e nella letteratura, del Novecento e non solo. Branduardi canta Yeats (1986), ad esempio: dieci ballate ispirate alle liriche del grande poeta irlandese, tradotte dalla moglie, Luisa Zappa, che è anche, da sempre, l'autrice dei testi delle sue canzoni. Un album di paesaggi incantati, intenso e armonioso. O L'ultimo poema, dedicato al poeta russo Vladimir Vysockij. O La bella dama senza pietà (1977), ispirata ad una famosa lirica di John Keats. Una delicata ballata del 1819, dal fascino inquietante, soprannaturale, del grande poeta romantico inglese. Il poeta delle immagini lussureggianti, di una breve vita, bruciata da una febbrile, prodigiosa intensità creativa e sentimentale. Il cantore dell'eterna bellezza: La bellezza è verità, la verità è bellezza: questo è tutto ciò che conosciamo sulla Terra e che ci è necessario conoscere. Una ballata che mutua il titolo da una più antica opera, un poemetto del XV secolo del poeta francese Alain Chartier, impostato sul dialogo tra un amante respinto e una sdegnosa dama. Nel capolavoro di Keats, nella sua lirica-emblema del Romanticismo, un cavaliere senza nome, solo e pallido errante, smunto e abbattuto, che, canterà Branduardi, sembra fuggito dall'aldilà, racconta a un poeta il suo destino sventurato. Di essersi imbattuto in una figlia delle fate, una bellissima dama dagli occhi folli, che è riuscita, con le sue intriganti profferte d'amore, la sua irresistibile malia, a stregarlo e soggiogarlo. A condurlo in una magica grotta dove, irrimediabilmente irretito, sprofonderà nel sonno, accorgendosi poi, al risveglio, di essere sconsolatamente solo, su un freddo e muto colle, dentro un paesaggio sterile e desolato. Prigioniero di un amore che, come nell'eterno, imponente topos letterario, si apparenta indissolubilmente, in un inscindibile connubio, alla morte.

Una ballata che dette origine a un tema molto popolare tra i pittori Preraffaelliti: quello della donna-vamp, femme fatale, fredda, splendida e spietata seduttrice. Una dark-lady che cattura nella sua rete l'uomo ignaro, preda del suo incantesimo.

Branduardi, per restituire il fascino immortale della lirica di Keats, la sua magica, durevole suggestione, la sua sinistra, funerea malia, quell'atmosfera fatata e inquietante, dark e romantica, si avvarrà, in chiusura dell'album, La pulce d'acqua, delle lamentose sonorità del sitar, della sua inconfondibile melodia.

"Quando al mio fianco

Lei poi si appoggiò

Io l'anima le diedi

Ed il tempo scordai

(...)"

"Al limite del monte

Mi addormentai

Fu l'ultimo mio sogno

Che io allora sognai

Erano in mille e mille di più..."

Che bianche e gelide

Dita tu hai...

"Erano in mille

E mille di più

Con pallide labbra

Dicevano a me:

- Quella che anche a te

La vita rubò, è lei

La bella dama senza pietà"

E ancora, a riversar, negli anni, poesia nei dischi: Futuro antico (1996), con pagine musicali sacre e profane, del Medioevo e del Rinascimento; L'infinitamente piccolo (1999), album interamente dedicato alla vita e alla poesia di San Francesco, in cui Branduardi si avvale di prestigiose collaborazioni: Morricone, Battiato, i Madredeus, la Nuova Compagnia di Canto Popolare. "Era un grande poeta, amava cantare e lo faceva spesso, anche da solo. Per accompagnare il suo Cantico delle Creature aveva composto una musica che è andata perduta: io ho provato a ridare voce alle sue parole perché si possa di nuovo cantarle". Nel, 2003, Altro ed altrove, album in cui il menestrello musica poesie d'amore, patrimonio di popoli di ogni tempo e Paese. Un "viaggio", scrive in un messaggio affidato al booklet, "tra sogno e curiosità, immagini di terre lontane, visioni di uomini e donne che, sotto altri cieli, ardono delle stesse passioni".

Il bello è una nota prima del tremendo, scrive Rainer Maria Rilke. Il bello, cioè l'arte, precede ed insieme intuisce il tremendo, che è l'ignoto. In questa verità c'è il senso della poesia. Essa scava, parola, nell'essere: e lo porta all'ignoto; oltre, al di là, di un contingente che si chiama vita. La poesia interroga e vive l'ignoto. E di poesia, di una parola inedita e cocente di amore, la nostra epoca, il nostro mondo, ha urgente bisogno. Nella realtà regolata del nostro universo produttivo, premuti dalla fretta e dall'impazienza, da uno sciame di futili cure, proprio ora che gli oggetti abbondano e ci sommergono e quasi pensano per noi, ora che ogni atto deve tradursi in puntualità ed efficienza, e tutto si consuma nella vertigine dell'accumulo e nella frenesia del denaro, ci ritroviamo più orfani e più soli. Spogliati, espropriati di noi stessi, della possibilità di essere, della capacità di "sentire" la vita, di esperirla nella sua profondità. In questo scenario prosaico e deludente, dove tutto è reso fungibile, scambiabile, equivalente, "esteriore", dove ci si prostra soltanto davanti all'altare della pura economicità, al dio del consumo e del profitto, in questa realtà che non sembra ammettere faglie e interstizi nella sua compattezza e che tenta di inibire l'ascolto, il raccoglimento interiore, la poesia riesce ancora a dire cose, non parole, a muovere e commuovere, a scavare un senso, un significato, un messaggio, sotto la quotidianità banale, sotto la "superficie" della vita.

La vita è il sogno della vita

La poesia la vita di quel sogno.

Così il poeta pesarese Gianni D'Elia, nella sua opera prima, Non per chi va.

Pure se destinati al declino, alla caducità, alla morte, abbiamo, qui e ora, l'occasione di esperire l'esistenza nelle sue epifanie, nei suoi eventi, nelle sue occasioni, di ribaltare l'assenza, in possibilità di presenza, di essere pienamente. Questo grazie alla poesia, che ci strappa alla greve eternità del destino, per colorirci nei giorni e nei paesi in cui siamo. Nella piena consapevolezza dell'essere risiede dunque la nostra irripetibile occasione, e la nostra "passione".

Vivi

e insieme sappi la condizione del non vivere,

inesausta radice del tremore che racchiudi,

cerca per una volta di afferrarlo pienamente;

E se il mondo di oblio ti ha ricoperto

alla terra immobile puoi dire: io scorro

e all'acqua rapida ribattere: io sono.

Rilke, ancora e sempre.

Ma l'esito più alto e suggestivo delle tante puntate di Branduardi nella poesia resta, tuttavia, sicuramente, Confessioni di un malandrino. L'incontro con la poesia di Esenin e, in essa, con il fascino misterioso e incantatorio della natura. Come in quest'altra sua lirica, di straordinaria bellezza:

Nella frescura d'autunno è bello

scuotere al vento l'anima - che pare una mela -

e guardare l'aratro del sole

che solca sopra al fiume l'acqua azzurra.

È bello strapparsi dal corpo

il chiodo ardente d'una canzone

e nel bianco abito di festa

aspettare che l'ospite bussi.

Io mi studio, mi studio

col cuore

di serbare negli occhi il fiore

del ciliegio selvatico.

(Nella frescura d'autunno è bello)

Una lirica colma del suo amore disperato per la vita, da cui sarà, infine, sopraffatto. Scrive Albert Camus ne Il rovescio e il diritto, il suo esordio letterario, la "sorgente" (confesserà egli stesso, poco prima di morire) della sua ispirazione: "Non c'è amore di vivere senza disperazione di vivere".

Amare la vita fino a morirne. Fino a guardare nell'abisso, fino alla tristezza che, come un verme blu le foglie, mi mangia gli occhi.