E' tutta musica leggera


"I vecchi" di Claudio Baglioni. Tenera, struggente poesia

A tutti i vecchi morti senza una parola, senza una carezza,
sterminate biblioteche lasciate affondare, perdute in fondo al mare.

I vecchi, una delle canzoni più belle e ispirate di Claudio Baglioni. Una "pietra dura", una "stella fissa". Definizioni che lui stesso ha coniato, per indicare quei brani che sfidano gli anni e le stagioni, i passaggi di tempo, per dirla con De André, e ancora ci toccano, ci scuotono, ci emozionano. Una canzone che stregò Lucio Dalla, apparsa in uno degli album più belli degli anni '80, Strada facendo. Un album in cui Baglioni inizia a sperimentare un nuovo linguaggio, poetico e musicale. Si avvarrà, tra l'altro, degli arrangiamenti dell'ex pianista dei Bee Gees, Jeoff Westley, che garantirà al disco un nuovo, più internazionale respiro melodico.

Fino ad allora, nel corso degli anni '70, il cantautore romano era stato soprattutto il cantore di un mondo di adolescenziali pulsioni e giovanili emozioni. Dei sogni, dei batticuori, delle prime acerbe, tormentate storie d'amore. Una vena poetica un po' "liceale", caratterizzata dall'uso ricorrente di un lessico semplice, tradizionale, e da uno spiccato, intenzionale ricorso a termini familiari e colloquiali. Una lingua confidenzial-popolare. Quella, come cantava in Porta portese, di re, scannati, ricchi ed impiegati / capelloni, ladri, artisti e figli di... La lingua parlata dai ragazzi, stipata di esclamazioni gergali, di modi di dire idiomatici, di immagini romantiche e sentimentali. Una lingua gravitante nell'orbita psicologica dell'adolescenza: Le patacche che ti ammolla quello là; ci son cascato come un pollo (Porta portese); buonanotte al secchio (Ragazza di campagna); mi diceva: Sei una frana (Questo piccolo grande amore). O innervata di imprestiti dal dialetto romanesco: A regà, ma che hai fatto (Porta portese).

Una scrittura, ancora, farcita da un lessico invariabilmente romantico e amoroso: cielo, mare, bacio, cuore, amore, tramonto... Che induceva nei ragazzi un'emozionale identificazione, e una immediata condivisione. E i suoi concerti, infatti, erano regolarmente affollati da schiere di ragazzine lacrimanti e deliranti, tutte lì ad adorare il loro principe azzurro. La punta di questo poetare, deflagrante, esplosiva, fu Questo piccolo grande amore. Un'icona, un classico nel suo genere. "La canzone più bella del secolo", secondo un referendum "oceanico" lanciato dal programma TV Fantastico, nel 1985. Un brano a suo modo inarrivabile e immortale, il più venduto nella storia della discografia italiana. Davanti (per restare ai primi 3 classificati) a Vita spericolata, di Vasco Rossi e Azzurro, di Paolo Conte / Celentano.

Quella sua maglietta fina

Tanto stretta al punto che m'immaginavo tutto

E quell'aria da bambina

Che non gliel'ho detto mai ma io ci andavo matto

E chiare sere d'estate, il mare, i giochi, le fate

E la paura e la voglia di essere nudi (che si tramuterà, dopo il vaglio severo della censura, in una più casta paura e voglia di essere soli)

(...)

Lei era

Un piccolo grande amore

Solo un piccolo grande amore

Niente più di questo niente più

Mi manca da morire

Una canzone che ancora ci risuona nelle orecchie, scolpita a caratteri indelebili nell'immaginario collettivo, con quelle sue immagini venate di ingenua, casta innocenza, e quel celeberrimo, ossimorico refrain. Freschezza compositiva, naturalezza melodica, perizia artigiana. Non c'è che dire. Ma canzoni (questa e molte altre di quegli anni) che affogavano in una vischiosa palude sentimentale, dalla quale Baglioni stesso ha cercato, in seguito, più o meno felicemente, di tirarsi fuori. Fino ad arrivare, negli ultimi dischi, ad una forte sperimentazione linguistica e a una cura maniacale dei testi. A una scrittura che fa posto al flusso di coscienza, e ad un ermetismo, spesso, è da dire, piuttosto velleitario. Scriveva il grande Edmondo Berselli, nel suo Canzoni. Storie dell'Italia leggera, a "schizzare", da par suo, i due momenti della parabola artistica del Divo Claudio. L'iniziale e il suo superamento, il suo Oltre. Come il titolo dell'ambizioso doppio album, all'alba degli anni '90: "Se Guccini è il Carducci della musica popolare italiana, con quei versi che macchinosamente ruotano su se' stessi, e De Gregori ne è forse l'Ungaretti, grazie a una miscela spot di ermetismo e realismo, Baglioni se ne sta o meglio se ne stava fra Pascoli e Gozzano: con una sua precisione linguistica, con un distinguibile amore per le parole, con una sensibilità per la metrica. Quadretti, oleografie e presepi, o poster, ma anche un'insolita esattezza nel definire situazioni, psicologie e trasalimenti. Sempre sintonizzato sull'intimistico-adolescenziale, avvinto al sentimento delle piccole cose e dei piccoli grandi amori, e insomma con il cuore in mano.

Alla fine il responso è inevitabile: uffa. Ma bisogna riconoscere che era bravo, o a seconda dei gusti bravino o bravissimo, già allora, quando romanticheggiava, sempre pronto a strangolarsi l'ugola per acchiappare quelle sue note così alte, scolpite sul pentagramma dell'eternità. Poi, naturalmente, anche lui cambia, come tutti". "La novità effettiva è che infila versi come Quando la notte è passata al passivo/alle sette passate oltrepasso la porta e via allitterando in "esse" per un'intera strofa, e poi di nuovo nella conclusione-con-freddura: che spasso era andarsene a spasso/passo/e chiudo. E in un altro brano: E in cielo accenderanno/comete come te. Insomma, all'improvviso eccolo capzioso e sperimentale, maniaco professionista dell'esercizio linguistico: che cosa è successo? Il poeta del naturale diventa l'esteta dell'artificiale: perché mai? I più scettici dicono che dev'essere rimasto sconvolto e affascinato dai pastiche e dalle evoluzioni parolibere di Pasquale Panella.

Sarà vero, sarà probabile, sarà una congettura. (...) Ma mentre Panella non sente affatto il bisogno di proporre un significato, Baglioni continua a giocare con le parole e le allitterazioni, come se non ne potesse fare a meno, e come se dentro gli anagrammi e i lucchetti delle parole ci fosse qualche verità misconosciuta, da riportare finalmente alla luce:

Battiti combatti

Ribatti gli attimi scaduti

E tutti i battiti mai battuti

(...)

Battiti combatti

Abbatti i rettili corrotti

Sopra i relitti dei malridotti

Sbattuti giù

Per i delitti dei derelitti

Per sempre vittime dei conflitti

Battiti battiti".

Un cantautore guardato con sospetto dai critici, dai colleghi e da una larga fetta di pubblico, che non gli perdona (mai gli ha perdonato) il suo "colpevole" disimpegno, i versi banali e spensierati, le frivole sdolcinatezze, il facile ascolto, insomma. In anni in cui, in Italia, la canzone d'autore percorreva altre strade, si affacciava su altri orizzonti, con De Gregori, Guccini, De André. Non gli perdona, soprattutto (il principale capo d'accusa) il suo lirismo lezioso e trepidante, con quello sbrilluccichio poetico e quel romanticume linguistico zuccheroso, da fotoromanzo. Il suo essere stato il celebratore smielato e lacrimevole delle adolescenziali tempeste ormonali, un cantante (eccola, l'accusa infamante!) "per ragazzine".

Baglioni, dunque, con Strada facendo, volta pagina, esplora nuovi territori, musicali e testuali. Siamo, qui, agli inizi degli anni '80, in una fase in qualche maniera "intermedia" della sua scrittura. Prima dell'ultra macerato e pretenzioso oltranzismo linguistico che verrà. E che la penna di Berselli ha illustrato così bene. Scriveva, nel 1986, Enrico De Angelis, uno dei più importanti storici della canzone italiana (è lui, tra l'altro, ad aver coniato l'espressione "canzone d'autore", che ha avuto enorme fortuna): "Sono proprio i nuovi testi ad essere bellissimi: dicono in bella forma e con ispirata commozione cose sensate, comprensibili e concrete, al contrario dell'andazzo corrente (anche tra i cantautori) e in linea, invece, con la canzone d'autore classica."

Ed eccoli, questi testi. Ascoltiamoli.

I vecchi sulle panchine dei giardini

Succhiano fili d'aria e un vento di ricordi

Il segno del cappello sulle teste da pulcini

I vecchi mezzi ciechi, i vecchi mezzi sordi

I vecchi che si addannano alle bocce

Mattine lucide di festa che si può dormire

Gli occhiali per vederci da vicino a misurar le gocce

Per una malattia difficile da dire

Un brano (questo, come altri, nell'album), con un taglio più autobiografico rispetto ai precedenti, centrato sul mondo interiore dell'autore. E con uno sguardo più universale, che si sofferma a osservare, con accenti dolcissimi e struggenti, un'umanità debole e marginale. I vecchi, appunto. E muta la scrittura. Non più intimistica, adolescenziale, crepuscolare, ma un linguaggio che, pur restando profondamente ancorato alla quotidianità, la filtra attraverso un occhio più attento, partecipe e commosso. Emerge, anche, una diversa tecnica compositiva. Un testo incardinato su una lunga sequenza di frasi nominali, dove spesso l'aggettivazione fa posto alla metonimia. Frasi non consequenziali, semanticamente coerenti tuttavia, che non intendono pero' più veicolare un discorso. Strutturate a partire da un verso-puntello, consistente nel replicare, all'inizio di ogni strofa, un frammento di testo. Tutto questo permette di "farcire" il brano di ricordi, flash, sensazioni, immagini isolate, in maniera sintatticamente libera, spontanea, svincolata da una narrazione canonica, più rigida e "ingabbiata". Una narrazione che viene qui, appunto, elusa e azzerata: I vecchi sulle panchine dei giardini; i vecchi che si addannano alle bocce; i vecchi tosse secca che non dormono di notte; i vecchi che portano il mangiare per i gatti.

Viene privilegiata, insomma, la tecnica elencativa del catalogo, della giustapposizione, molto cara ai poeti crepuscolari. Si pensi, ad esempio, ad alcune poesie di Corrado Govoni. Govoni che, tra pascolismo e dannunzianesimo, traduce l'infinita varietà dei fenomeni della realtà e dei colori del mondo in un "fiabesco inventario privato", come scrisse Eugenio Montale. Ad esempio, nell'enumerazione delle Cose che fanno la domenica. Dove l'allentarsi dei legami logico-sintattici dà vita ad una sorta di filastrocca, di "litania lirica", col suo impressionismo nomenclatorio e la visiva sensualità delle immagini.

L'odore caldo del pane che si cuoce dentro il forno.

Il canto del gallo nel pollaio.

Il gorgheggio dei canarini alle finestre.

L'urto dei secchi contro il pozzo e il cigolio della puleggia.

La biancheria distesa nel prato.

Il sole sulle soglie.

La tovaglia nuova nella tavola.

Gli specchi nelle camere.

I fiori nei bicchieri.

Il girovago che fa piangere la sua armonica.

Scrive il linguista Giuseppe Antonelli, che, nel suo libro, Ma cosa vuoi che sia una canzone, ricostruisce, attraverso un'indagine sulle parole dei testi canori, mezzo secolo di storia della nostra lingua: "A partire dai primi anni Settanta (...) il verso puntello entrerà immediatamente nel nuovo standard della canzone italiana e segnerà in maniera profonda tutto il ventennio successivo. Ricorrendo a questa tecnica sono costruite - per limitarsi a brani di culto di tre grandi nomi - Siamo solo noi (1981), Vado al massimo (1982), Ogni volta (1982), Vita spericolata (1983), Vivere (1993), Un senso (2004) di Vasco Rossi; Donne (1985) e Con le mani (1987) di Zucchero; Ho messo via (1993) e Certe notti (1996) di Ligabue. Il verso puntello è il mastice che consente di tenere insieme testi logicamente e sintatticamente franti, di giustificare quello spezzettamento sintattico grazie al quale si possono evitare inversioni, troncamenti e altri vecchi trucchi. È l'uovo di Colombo: il grande artificio che rende tutto apparentemente naturale; la spinta poetica che - paradossalmente - finisce con l'avvicinare la lingua delle canzoni alla prosa e al parlato."

Nella canzone di Baglioni, la descrizione del mondo dei vecchi smette i toni realistici del passato e si esercita su accenti allusivi, molto suggestivi ed evocativi. Che rimandano ai loro malanni assortiti, alla loro inguaribile solitudine, alle loro manie e nostalgie, alle loro tenere e buffe inadeguatezze. I vecchi non vengono mai descritti in maniera diretta, oggettiva, naturalistica appunto. Sono piuttosto ritratti attraverso espressioni traslate, figurate, che attingono alle loro quotidiane abitudini: ì vecchi sulle panchine dei giardini, voci bruciate dal fumo e dai grappini di un'osteria; alla loro salute incerta, precaria: i vecchi mezzi ciechi, i vecchi mezzi sordi; all'inappagata, melanconica urgenza dei loro sentimenti, al loro bisogno di ascolto, di vicinanza e d'amore: i vecchi senza un corpo i vecchi senza una carezza; i vecchi cuori di pezza, un vecchio cane e una pena al guinzaglio.

Questa nuova esperienza compositiva dà vita (nello stesso album, Strada facendo) a un altro bellissimo brano, un'altra canzone-capolavoro, Le ragazze dell'Est. In essa Baglioni dipinge, con fresche, felicissime e tenere pennellate di poesia, uno straordinario quadretto, culturale e sociale, di quell'Europa schiacciata e ingrigita dal comunismo. La Polonia, prima della caduta del muro. Un mondo povero, arretrato, soffocato dalla pesante retorica ufficiale e dalla chiusura oppressiva del regime. Con uno sguardo empatico e partecipativo alla spicciola quotidianità, alla vita di piccole regine, ragazze tra statue di eroi e di operai. Che, coi capelli di sabbia raccolti nei foulards, attraversano le loro giornate con innocenza, ingenuità e candore. Sentimenti tramati, tuttavia, da un sottile, invincibile dolore, per una primavera che non venne mai. Povere belle donne, con lievi spine d'ansia nei petti rotondi e bianchi e sulle labbra un vago sorriso di attesa e chissà che.

Anche qui, come nei Vecchi, un testo strutturato sull'uso dell'epifora, sulla martellante ripetizione (otto volte) dell'espressione Io le ho viste.

Nei mattini pallidi ancora imburrati di foschia

Risatine come monete soffiate nei caffè

Facce ingenue appena truccate di tenera euforia

Occhi chiari laghi gemelli occhi dolci amari

Io le ho viste

Fra cemento e cupole d'oro che il vento spazza via

Sotto pensiline che aspettano il sole e il loro tram

Coprirsi bene il cuore in mezzo a sandali e vecchie camicie fantasia

E a qualcuno solo e ubriaco che vomita sul mondo

(...)

Le ho viste

Nelle sere quando son chiuse le fabbriche e le vie

Sulle labbra vaghi sorrisi di attesa e chissà che

Scrivere sui vetri ghiacciati le loro fantasie

Povere belle donne innamorate d'amore e della vita

Le ragazze dell'Est

Questa nuova tecnica di costruzione del testo torna anche in un'altra morbida, delicata ballata, Avrai, composta in occasione della nascita del figlio Giovanni. Con il verbo augurale posto, puntualmente, all'inizio di ogni strofa.

Avrai sorrisi sul tuo viso come ad agosto grilli e stelle

Storie fotografate dentro un album rilegato in pelle

Tuoni di aerei supersonici che fanno alzar la testa

E il buio all'alba che si fa d'argento alla finestra

(...)

Avrai una donna acerba e un giovane dolore

Viali di foglie in fiamme ad incendiarti il cuore

Avrai una sedia per posarti e ore

Vuote come uova di cioccolato

Ed un amico che ti avrà deluso tradito ingannato...

Ma torniamo a I vecchi. Al di là delle considerazioni "tecniche", di ordine linguistico e stilistico, compositivo, la bellezza della canzone risiede, soprattutto, nel suo accento evocativo, sottilmente dolente e struggente. Che rifugge da una vuota, abusata retorica, versata spesso a piene mani quando si parla di loro e del loro mondo; una retorica direttamente, e tristemente proporzionale, al sostanziale disinteresse generale e all'esclusione sociale di cui sono vittime. E si affida invece alle armi lievi di una sincera dolcezza e di una disarmante tenerezza. Riuscendo così, grazie anche al suo grande respiro melodico e a quella vocalità intensa e cristallina di Baglioni, una vocalità dalla straordinaria estensione (ne dà un assaggio stupefacente nel finale prodigioso e "inaudito" di Tutto il calcio minuto per minuto), a suscitare un forte impatto emotivo, una profonda emozione e commozione. Una delle canzoni (insieme a Le ragazze dell'Est) più belle e ispirate del cantautore romano, che si fa così "perdonare" dei suoi passati ardori poetici, dei suoi fremiti "liceali" e adolescenziali. Una canzone che ci strappa, per una manciata di minuti, alle nostre vite colme di vuoto, saturate dalla fretta e dall'impazienza, e ci conduce in un mondo "altro". Un mondo che scorre parallelamente al nostro, ma che spesso non intersechiamo. Perché i vecchi non li vuole nessuno, i vecchi sono da buttare via.

Lo sguardo di Baglioni, umanissimo e acutissimo, intensamente lirico, che si sofferma con tenera e dolente partecipazione sui gesti e i momenti di un "minimalismo" quotidiano, evoca irresistibilmente uno dei film più belli sulla solitudine e sulla vecchiaia. Uno dei vertici del Neorealismo italiano, un capolavoro senza tempo: Umberto D, di Vittorio De Sica, su sceneggiatura di Cesare Zavattini. Il racconto dell'amara, tormentosa odissea di impotenza di un pensionato che si trascina, col suo cagnolino, Flik, al limite della sopravvivenza. La sommessa angoscia di un uomo che si dibatte nella miseria e nella desolazione, in una povertà vissuta con enorme dignità, schiacciato dall'egoismo e dall'indifferenza, e che arriva alla soglia del suicidio. E sarà proprio il suo cagnolino, fortuitamente, a salvarlo. Un affresco universale di straordinaria potenza, un racconto che si sofferma anch'esso, come Baglioni nella sua ballata, su episodi, momenti, dettagli, nella semplicità della vita di tutti i giorni. "I fatti qualsiasi", della zavattiniana "poetica del quotidiano". E che (singolare, curioso parallelismo) procede, nella narrazione filmica, attraverso la frammentazione di singole scene che sono quasi, in se stesse, come l'inventario di frasi nominali nella canzone, storie "autonome", perfettamente concluse. Un film che, come altre opere di De Sica (qui meno sentimentale, più pudico, asciutto, rigoroso) entusiasmò Cesare Pavese. Che nel 1950, in un'intervista alla radio, arrivò ad affermare: "Il maggior narratore contemporaneo è Thomas Mann e, tra gli italiani, Vittorio De Sica".

Al clima poetico e sentimentale della canzone di Baglioni si apparenta anche quello di una lirica di Leonardo Sinisgalli, Pianto antico, che ruba il titolo ad una più famosa, di Giosue Carducci. Un' "istantanea" dolcissima e struggente, in cui il poeta-ingegnere lucano, della generazione inquieta dei Pavese e dei Montale fissa, con delicatezza, del mondo dei vecchi, un momento di attonito smarrimento, di solitudine arresa, in un nascondiglio della casa vuota.

I vecchi hanno il pianto facile.

In pieno meriggio

in un nascondiglio della casa vuota

scoppiano in lacrime seduti.

Li coglie di sorpresa

una disperazione infinita.

Portano alle labbra uno spicchio

secco di pera, la polpa

di un fico cotto sulle tegole.

Anche un sorso d'acqua

può spegnere una crisi

e la visita di una lumachina.

I vecchi: hanno tratti forti, contadini, facce incise dalla fatica, bruciate dal sole, smangiate dal vento, scolpite dal cumulo dei giorni. Hanno cappelli e bastoni, occhi venati di sangue, che raccontano l'epopea di una vita leggendaria e illuminano, come torce, i remoti recessi di un mondo perduto. Occhi di pacata rassegnazione, acquosi e curiosi, avvolti dalla cenere. Dietro una ragnatela di rughe l'aria smarrita, affannata dal peso degli anni, che scruta nel deserto d'Ombra che li attende. Hanno corpi nodosi, come tronchi d'ulivo, contorti dall'artrosi, nello scosceso andare verso una calle stretta e buia. E, in una tasca polverosa del cuore, un pungo di ricordi secchi da sgranocchiare. Parlano con lentezza lievemente ipnotica, senza acredine, senza rancore, incespicando, a volte, tra le parole, nella stremata bellezza di una millenaria saggezza, mentre scaldano il sangue al sole del mattino.

I vecchi, un brano magnifico, che fa tornare in mente un'altra ballata da brividi, Il pensionato, di Francesco Guccini. Quel suo sublime, struggente spaccato di dimessa, ordinaria quotidianità. Un lirico squarcio di vita vissuta, dimenticata dal mondo, dalle tonalità crepuscolari. Una foto ingiallita, smangiata dal tempo. Il ritratto commosso di un suo vicino di casa, a Bologna, in quella Via Paolo Fabbri 43 che dà il titolo a uno dei suoi album più belli. Il pensionato (Paolo Mignani, ex calzolaio) con la sua antica, desueta cortesia d'altri tempi, e i riti quotidiani di un'esistenza andata in tanti giorni uguali e duri. "Mi sono accorto di essere invecchiato quando ho rifatto la carta d'identità e l'impiegato del comune mi ha chiesto. Capelli? E io: castani. Lui mi guarda e sorride: meglio mettere brizzolati". "Un amico prezioso "che, racconta Guccini, "si alzava quando andavo a letto e andava a letto quando io uscivo, pareva quasi vivesse un presente assurdo, fatto di passato (...) e di futuro: la paura del domani, il presentimento che di lui sarebbe rimasta soltanto un'impressione che ricorderemo appena".

Lo sento da oltre il muro che ogni suono fa passare

L'odore quasi povero di roba da mangiare

Lo vedo nella luce che anch'io mi ricordo bene

Di lampadina fioca, quella da trenta candele

Fra mobili che non hanno mai visto altri splendori,

Giornali vecchi ed angoli di polvere e di odori,

Fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani:

Mangiare, sgomberare, poi lavare piatti e mani.

(...)

Io ascolto e i miei pensieri corron dietro alla sua vita,

A tutti i volti visti dalla lampadina antica,

A quell' odore solito di polvere e di muffa,

A tutte le minestre riscaldate sulla stufa,

A quel tic-tac di sveglia che enfatizza ogni secondo,

A come da quel posto si può mai vedere il mondo,

A un'esistenza andata in tanti giorni uguali e duri,

A come anche la storia sia passata fra quei muri...

(...)

Diremo forse un giorno: "Ma se stava così bene..."

Avrà il marmo con l'angelo che spezza le catene

Coi soldi risparmiati un po' perché non si sa mai,

Un po' per abitudine: "eh, son sempre pronti i guai".

Vedremo visi nuovi, voci dai sorrisi spenti:

"Piacere", "È mio", "Son lieto", "Eravate suoi parenti?"

E a poco a poco andrà via dalla nostra mente piena:

Soltanto un'impressione che ricorderemo appena...

E il finale della canzone, con la sua atmosfera dolente ed elegiaca, colma di nostalgia, per una vita già consumata nella fuga inesorabile del tempo, ci riporta a una pagina straordinariamente toccante di Fernando Pessoa. Un autore dall'opera sconfinata, "la più sorprendente galassia letteraria che il Novecento ci ha consegnato", come ha scritto Antonio Tabucchi, che in Italia è stato il suo "scopritore" e più appassionato lettore e traduttore. Un frammento da quel libro "frammentario, labirintico, eppure sistematico" (ancora Tabucchi) che è Il libro dell'inquietudine. "Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l'angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita. Il vecchio anonimo dalle ghette sporche che mi incrociava quasi sempre alle nove e mezzo del mattino? Il venditore zoppo dei biglietti della lotteria che mi seccava senza successo? Il vecchietto tondo e rubizzo, col sigaro in bocca, che sostava sulla porta della tabaccheria? Il pallido tabaccaio? Cosa ne sarà di tutti costoro che, solo per averli sempre visti, hanno fatto parte della mia vita? Domani anch'io scomparirò da Rua da Prata, da Rua dos Douradores, da Rua dos Fanqueiros. Domani anch'io - l'anima che sente e pensa, l'universo che io sono per me stesso - sì, domani anch'io sarò soltanto uno che ha smesso di passare in queste strade, uno che altri evocheranno vagamento con un "che ne sarà stato di lui?". E tutto quanto ora faccio, quanto ora sento e vivo non sarà niente di più che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi."

Ed è possibile rinvenire, su questo tema della finitudine, del nostro doloroso e misterioso dileguare, svanire in altre esistenze, del nostro essere attori ingenui sul palcoscenico del tempo, una straordinaria vicinanza del "sentire" tra le parole di Pessoa e quelle di un'altra canzone, Vite, del Maestrone di Pàvana

E la mia vita cade in altra vita

ed io mi sento solamente un punto

Lungo la retta lucida e infinita

Di un meccanismo immobile e presunto.

Tu sei quelli che son venuti prima

Che in parte hai conosciuto, e quelli dopo

Che non conoscerai, come una rima

Vibrante e bella, però senza scopo.

È inutile cercare una risposta,

Sai che non ce ne sono e allora tenti

Un bussare distratto a quella porta

Che si chiuse soltanto ai sentimenti.

Non saprai e non sai.

(...)

E percorriamo strade non più usate

Figurando chi un giorno ci passava

E scrutiamo le case abbandonate

Chiedendoci che vite le abitava,

Perché la nostra è sufficiente appena

Ne mescoliamo inconsciamente il senso;

Siamo gli attori ingenui di un palcoscenico misterioso e immenso.

Ma non ho ancora detto del finale de I vecchi. Qui Baglioni si rifà a un altro capolavoro del cinema, a quel film emozionante e travolgente che è Qualcuno volò sul nido del cuculo. Dove uno strabiliante, inarrivabile Jack Nicholson, condannato per reati di violenza, ma sano come un pesce, si spaccia per matto, fingendosi un po' picchiatello, per farsi ricoverare in un ospedale psichiatrico ed evitare così il carcere. Baglioni si ispira a quella scena memorabile in cui il protagonista, Randle Patrick Mc Murphy-Nicholson, improvvisatosi capitano, approfittando di una falla nella struttura manicomiale, tutta chiusa repressione, disciplina intransigente, ordine e pulizia (con quella crudele, sadica, opprimente infermiera Ratched) riesce, con la sua buffa e strampalata "ciurma" di svitati, a raggiungere un porto. Ad imbarcarsi e fare un giro in mare. "Ma che cosa vi credete di essere, vacca troia? Pazzi? Davvero? Invece no. E invece no. Voi non siete più pazzi della media dei coglioni che vanno in giro per la strada, ve lo dico io!"

Una gita che risulterà sfortunata, ma malinconicamente divertente. Una scappatella che anche il cantautore romano immagina, nel finale della canzone, di realizzare con i protagonisti della sua storia:

Se avessi un'auto da caricarne tanti

Mi piacerebbe un giorno portarli al mare

Arrotolargli i pantaloni

E prendermeli in braccio tutti quanti...

Sedia sediola... oggi si vola...

E attenti a non sudare

Un ideale abbraccio perché evadano, anche loro, da una quotidianità immutabile, chiusi e segregati nella prigione della loro stessa vita. I vecchi, corpi da recintare, da occultare tra le pieghe del mondo.

I Vecchi sempre tra i piedi

Chiusi in cucina se viene qualcuno

I Vecchi che non li vuole nessuno

I Vecchi da buttare via...

"Ricordo quella scena come un momento di straordinaria vitalità, di grande ribellione e di stupenda poesia. Quando si fermano, e Nicholson li presenta uno per uno come il Professor tale e il Professor talaltro, che magnifica burla, che tenera trasgressione! Con I vecchi mi sono ritrovato senza un finale e non mi andava di chiudere con una morale della favola. È così che arrivò nella mia mente quella scena, mescolata al ricordo del piccolo treno per Ostia che prendevo da ragazzino e alla sensazione di Africa e di libertà che provavo, lanciato verso un mare "di città" come quello dei picchiatelli del film, finalmente liberi di rincorrersi sulla spiaggia della fantasia, con i calzoni arrotolati e le guance rosse".