Condannate a morte

25.11.2020

Mentre sto scrivendo, la prossima condannata a morte starà probabilmente cucinando il suo ultimo pasto, che probabilmente consumerà insieme al boia. Se dall'inizio dell'anno anziché 91 madri, lavoratrici o studentesse fossero stati uccisi - Dio non voglia - 91 politici, ci sarebbe la legge marziale.

Poiché le donne "appartengono" sempre a qualcuno - padre, marito o partner - le aggressioni da parte di un estraneo creano più allarme, in quanto ledono la proprietà. Il discorso cambia se a picchiare o uccidere una donna sono il padre, il marito o il partner, perché in questo caso abusa della donna di sua proprietà e l'uomo non rappresenta una vera minaccia per la società.

Il femminicidio non è considerato eversivo rispetto allo Stato o alla morale, anzi, visto che questi hanno ancora una base sostanzialmente patriarcale, in un certo senso li consolida. Quindi non si avverte il bisogno di elaborare strumenti di giustizia e di prevenzione per fronteggiare la violenza di genere (o quella omofoba), a differenza di quanto si fece per il terrorismo e per la mafia.

La prossima condannata starà già apparecchiando la tavola e forse starà ascoltando in tivù gli ultimi particolari di qualche tragedia, con i relativi autorevoli pareri di opinionisti e tuttologi su questi uomini che "non sanno gestire la rabbia e la sofferenza al termine di una relazione". Poverini, "non sanno gestire", come dicono le maestre di scuola materna quando un bimbo dà uno spintone al compagno che gli ha strappato il giocattolo. Ma i bambini dell'asilo non sono mai imputabili, nemmeno quando hanno venti, quaranta o sessant'anni, ma lei, la condannata, non ci fa più caso e torna in cucina. Cose sentite fin troppe volte e sempre dalle stesse persone, le stesse anime buone che insistono sul fatto che il femminicidio è prima di tutto un problema culturale. Affermazioni come "il problema è innanzitutto culturale" o "ci vuole una cultura del..." (da completare a piacere con: rispetto, legalità, salute, prevenzione), sono sinonimi politicamente corretti della frase "c'è poco da fare".

I benpensanti sognano un mondo in cui nessuna donna verrà più uccisa perché nessun maschio, opportunamente imbevuto di cultura, rispetto e legalità, sentirà più bisogno di torcere un capello a una donna, ma questa è pura utopia. Il femminicidio è presente anche nei Paesi più evoluti e non c'entra con l'emancipazione femminile, come vogliono suggerire alcuni, sottintendendo che la libertà delle donne spaventa il maschio. Nell'800, quando le donne valevano poco più di niente, venivano ammazzate ugualmente come mosche da mariti e amanti, complice il diffuso alcolismo che non aiutava certo gli uomini a "gestire la fine delle relazioni". La violenza è sempre lì, nel pozzo nero delle più antiche e indicibili pulsioni umane, a tutte le latitudini e ogni uomo, fin da ragazzo, deve imparare a rinnegarla e schiacciarla dentro se stesso.

La più elementare cultura della legalità è disincentivare la violenza di genere mostrando che chi la commette viene immancabilmente punito con equità, rapidità e certezza, e che la "passione" è un'aggravante, quando significa negazione della libertà dell'altro. Cultura della legalità significa far capire che lo Stato, con tutta la sua forza e autorevolezza, è sempre attivamente a fianco delle donne e sempre contro chi fa loro del male, con atti e minacce.

I maschi smettano di considerare i femminicidi come "compagni che sbagliano": le spiegazioni, le giustificazioni dolciastre, le teorie sulla crisi del maschio occidentale lasciamole agli psicologi del carcere. Occorre far sentire - forte e chiara - la riprovazione sociale contro chi tratta una donna come "la roba" di Mazzarò nella famosa novella di Giovanni Verga, distruggendola quando non può più essere sua.

Un appunto ai politici: dei vostri nuovi discorsi possiamo anche farne a meno, riutilizzate i vecchi che nessuno se ne accorgerà, tanto per la prossima donna condannata a morte sarà sempre troppo tardi.