Ex malo bonum

11.03.2020

Da quando è scoppiata l'emergenza virale in Italia, non ho mai scritto articoli su questo tema, mi sono chiuso in una sorta di quarantena comunicativa: niente articoli, niente commenti. Non per paura di contrarre la malattia solamente parlandone, ma per non alimentarne un'altra che, in rete e negli altri media tradizionali, circolava già abbastanza, senza bisogno di ulteriori aiuti alla sua diffusione.

Nemmeno ora, ovviamente, parlerò di malattia, misure di contrasto, possibili sviluppi: non ne ho le competenze e rischierei di aggiungermi inutilmente a quanti già da tempo seguono tutto il contagio minuto per minuto. Quello che vorrei osservare, di questo vivere ai tempi del Covid-19, è un altro tipo di fenomeno, tutto e squisitamente antropologico e sociale. Per farlo, partirei da una frase che un amico mi disse tempo fa: «Se semini spine in un campo, non hai alcun rispetto per chi non avrà scarpe buone per attraversarlo. E devi anche augurarti di non restare mai scalzo tu stesso». Penso a quelle parole e guardo a quanto succede, dove chi urlava contro l'altro, accusandolo di ungerlo con la malattia solo per un particolare aspetto o un determinato passaporto, oggi si trova a esser visto quale untore, per accento o provenienza.

E non c'è nulla di comico nel cinismo del contrappasso. Mi danno il voltastomaco le assimilazioni lodigiano-coronavirus, Italia-contagio, così come me lo davano i cori Napoli-colera degli anni passati o cinese-malattie dei giorni appena precedenti a questi. È squallido il video del pizzaiolo che tossisce sulla pala da forno quanto lo sono le parole di un presidente di Regione che immagina un intero popolo cibarsi di topi vivi. Sono vergognose le isterie connotate di razzismo contro gli italiani all'estero, come quelle che circolano qui da noi nei confronti dei migranti. Per tutto ciò, la frase del mio amico torna attuale: è triste quello che avviene, ancor di più perché quel campo lo abbiamo riempito di spine noi stessi, se non più di tutti, di sicuro fra gli altri.

Ma non siamo stati i primi. Le visite mediche forzate e le quarantene per i nostri avi che sbarcavano a New York erano d'obbligo. E non perché portassero davvero malattie, semplicemente perché avevano «dolore e spavento» da viaggiare in terza classe, non avendo le cento o le mille lire per la seconda o la prima. Così, per molti di loro, i primi giorni d'America altro non furono che una branda sull'isolotto artificiale di Ellis Island, dove arrivarono a inizio Novecento, e la scoperta dell'acqua calda che usciva dai rubinetti nel muro.

Ma proprio perché conosco (avendo letto molti libri sul tema) gli insulti lanciati come pietre su quei visi affannati per la sola colpa di essere nati in un posto diverso da quello dove, per fame, si erano dovuti recare, che lotto con forza, da sempre, contro ogni forma di razzismo.

Se sapremo trarre da questo periodo triste l'insegnamento per cui basta un accidente della storia o della natura per trovarsi sul lato sbagliato del mondo, allora non tutto sarà perduto. Ex malo bonum, predicava sant'Agostino: chissà se dalle difficoltà che stiamo vivendo riusciremo a cambiare il modo di guardare le cose del mondo e le persone che insieme a noi lo rendono vivo.