Non è un bello spettacolo

24.12.2020

In questi lunghi mesi di convivenza con il virus, la retorica ha giocato un ruolo importante. Ha assunto i connotati di una sorta di esorcismo collettivo, ora per convincersi che "andrà tutto bene", ora per dire che "ne usciremo migliori". Personalmente non so dire come ne usciremo, ma ad oggi non credo affatto che questo lungo stato di semi-sospensione ci abbia migliorato, né mi sembra di intravedere i segnali di una inversione di tendenza. Tutt'altro.

Quando sento le lamentazioni sul pranzo di Natale, sulle piste da sci, sulla richiesta di essere liberi di girare per i centri commerciali ad acquistare cose che per lo più non ci servono, sto male. La pandemia uccide centinaia di persone al giorno, uomini e donne che muoiono in solitudine, sofferenze, vite spezzate, affetti che vanno via, speranze finite, e noi pensiamo ai cenoni e alle piste da sci. E allora mi viene una sorta di rifiuto a festeggiare, vorrei annullare il Natale, perché penso sia stato snaturato del suo significato essenziale.

Gesù nacque in una capanna, ora io non dico che per seguire il messaggio di Cristo dovremmo tutti vivere in una baracca, no, Dio ci vuole felici anche in terra, ma un minimo di sobrietà, di capacità di contenerci, il rispetto verso gli altri, ecco, queste cose ci aiuterebbero a capire e a comportarci di conseguenza. Ma se anche oggi Gesù si facesse uomo, verrebbe fermato, arrestato, condannato e ucciso; e le sue idee, a cui facciamo vanto di richiamarci celebrandole con riti mondani e consumistici, vengono puntualmente tradite e smentite.

La pandemia, con la sua imprevedibilità, con le fragilità che ha evidenziato e con gli sconquassi che ha prodotto, avrebbe potuto rappresentare l'occasione per fare i conti con una dimensione che l'uomo del nostro tempo sembra avere drammaticamente rimosso, e cioè con il senso del limite a fronte della presunzione di onnipotenza. E non mi riferisco solo ai governanti, ai potenti, ma anche a quel popolo sempre pronto a scorgere nemici da incolpare e combattere (immigrati, emarginati, diversi), oppure trame e complotti in virtù dei quali sentirsi giustificati a non rispettare le regole, pronti a scendere in piazza e a battersi perché il virus non fermi il profitto, il divertimento, il grande gioco dell'apparenza, e pazienza se a morire saranno migliaia di anziani o quelli con "patologie pregresse", termine che rassicura tutti ma a me ricorda la selezione nazista all'arrivo dei treni nei campi di concentramento, dove i non perfetti venivano immediatamente bruciati perché non servivano per il lavoro. A nessuno viene in mente che senza il Covid il cardiopatico o l'immunodepresso sarebbe vissuto ancora per anni. Ma cosa siamo diventati?

Abbiamo avuto la prima ondata del virus, abbiamo contato i morti, sperimentato la fragilità della nostra organizzazione sociale, il modo ingiusto in cui viene redistribuita la ricchezza, ma non abbiamo fatto tesoro degli insegnamenti. Siamo tornati subito alla cosiddetta normalità con un'ansia irresponsabile. Feste, movide, vacanze all'estero, la voglia di apparire e di consumare, l'indifferenza verso gli altri. Così siamo arrivati alla seconda ondata. Ne vogliamo una terza? Questa è la cosa che mi fa male, l'egoismo umano. C'è qualcosa nel cuore dell'uomo che non va.

Non riesco a capire le difficoltà che ancora troppe persone, giovani soprattutto, hanno di afferrare la gravità della situazione e trarne le conseguenze. Al di là degli ondeggiamenti governativi, le conseguenze vogliono dire essenzialmente che ognuno deve fare la sua parte, che poi non è così difficile: starsene il più possibile appartati, coprire l'emissione di goccioline di saliva e lavarsi spesso le mani, dato che stiamo vivendo una tragedia di dimensioni planetarie, una pestilenza che scavalca le montagne, attraversa gli oceani, si diffonde velocemente attraverso i continenti e invade l'intero pianeta.

Ho letto di una studentessa rattristata perché le manca la sigaretta fumata all'uscita di scuola, i saluti e gli abbracci in corridoio... al suo posto mi preoccuperei di piu' del futuro di merda che l'aspetta, ma questo ovviamente e' un mio parere. Poi le parole pronunciate dal presidente di Confindustria di Macerata: «Le persone sono un po' stanche e vorrebbero venirne fuori, anche se qualcuno morirà, pazienza». Parole agghiaccianti. Sarebbe sbagliato considerarle solo voci uscite tanto per parlare, sono istinti profondi, parole pensate che in tempi normali sarebbero represse e durante le pestilenze vengono fuori più facilmente, rivelatrici della natura di chi le pronuncia. E questo, credetemi, non è un bello spettacolo.