Non siamo soldati

05.04.2020

In un'Europa colpita dal virus, sconvolta dall'inadeguatezza delle sue scelte, sepolta dall'inefficienza, si gioca a fare la guerra. Il primo è stato il Presidente francese Macron. Il goldenboy dei neoliberisti è infatti un noto habitué della militarizzazione della società civile - sia terminologica che materiale - e, seguendo la retorica emergenziale del suo predecessore nella Francia post-Bataclan, ha sempre gestito le situazioni di eccezionalità con uno stile che sembra la parodia del Generale Leone nel romanzo di Emilio Lussu Un anno sull'Altipiano: il nemico esterno (l'Isis) rende chiara la divisione del campo di battaglia, il nemico interno (il movimento dei gilet gialli) non deve conoscere pietà, quello totalizzante (il Covid-19) lava i peccati e ci fa unire sotto la stessa bandiera. Ma esiste una bandiera comune tra noi e chi comanda, siano essi francesi, tedeschi o italiani? Ovviamente no.

I piaceri dell'arte della guerra sono presto arrivati anche nel nostro Paese in una versione certamente annacquata. Il motivo - leggere il già citato Emilio Lussu per comprenderlo - credo sia un fattore culturale: culturalmente noi italiani non siamo soldati, non ci siamo mai riusciti ad esserlo. Siamo un popolo che la guerra non l'ha mai voluta, non l'ha mai saputa fare, un popolo che nella Storia ci è stato trascinato controvoglia ed è stato utilizzato come carne da macello. Il nostro Paese non si è mai ritrovato nell'idea di trincea; piuttosto ci troviamo molto più a nostro agio a fotografare chi fa jogging da dietro una persiana socchiusa. Abbiamo una vocazione per la delazione più che per il coltello tra i denti; in una guerra saremmo soldati con i fucili puntati sulle proprie trincee, non il milite ignoto, e questo non cambierà certo con due canzoni alla finestra. Ma non è qui che voglio arrivare.

La notizia che mi ha ispirato questa riflessione - forse troppo severa, forse troppo vera - è quella del richiamo per addestramento militare del calciatore sud coreano del Tottenham Son Heung-Min. In breve, nella Corea del Sud tutti i cittadini maschi devono prestare servizio di leva per diciotto mesi, al fine di avere un esercito di riservisti pronti in caso di scoppio del conflitto con i vicini del Nord, ma l'attaccante del Tottenham era riuscito a evitare lo stop (drammatico per la sua carriera da calciatore) grazie alla vittoria nei Giochi Asiatici, mentre era rimasta sullo sfondo l'ombra di quell'addestramento obbligatorio di un mese al quale nessuno può sottrarsi, nemmeno un calciatore di quel livello. Con la Premier League ferma per pandemia e il calciatore a Seul per riprendersi da un infortunio, in questi giorni gli è arrivata la notizia che dopo Pasqua dovrà fare addestramento militare su un'isola coreana.

Adesso facciamo un passo indietro. Sei o sette anni fa, a Capri, il presidente del Napoli De Laurentiis, dopo che Gonzalo Higuain si era tuffato su uno scoglio procurandosi alcuni punti di sutura, chiese cento milioni di danni al Comune di Capri e alla Regione Campania per presidi medici inadeguati. Cosa succederebbe se, alla fine di questo addestramento, la Corea del Sud "riconsegnasse" l'atleta al Tottenham con una gamba rotta? Da che parte si schiererebbe l'UEFA? Quale sarebbe il trattamento riservato alla Federazione Coreana nel calcio inglese dopo questo incidente? Ci sarebbe di nuovo spazio per un calciatore coreano in Premier League in futuro? Si può considerare questo un addestramento militare o soltanto una buffonata mediatica e propagandista? A queste domande non voglio rispondere, anche perché darei risposte prevedibili e scontate.

E allora viene da pensare a quanto sia ridicolo il militarismo e la sua retorica in quest'epoca, quanto sia un retaggio anacronistico dal quale facciamo fatica a liberarci. A chi comanda serve per farci sentire soldati e non cittadini, ne abbiamo bisogno per sentirci più sicuri con una divisa immaginaria cucita addosso. Tempo fa, fuori da una scuola elementare della mia città - Porto San Giorgio - i bambini scrissero, sopra ai colori della Pace, "io ripudio la guerra! E tu?". Una mano geniale aggiunse: "io ci cago sopra". Non dimentichiamocelo neanche in questi tempi duri, dato che la società di domani nasce anche dal linguaggio di oggi.