Rewind

16.03.2021

Un anno fa pensavo che tutto sarebbe passato in fretta e dopo un anno avremmo guardato questa pandemia con occhi diversi. Che avremmo dovuto pazientare qualche mese e poi tutto sarebbe tornato come prima, sarebbe davvero "andato tutto bene". Che dopo l'estate ci saremmo scrollati di dosso la tristezza e quella sensazione di smarrimento. Che un anno sarebbe stato più che sufficiente per non sentire più la parola "lockdown", che saremmo stati in grado di riprendere a vivere le nostre vite, distratte e ordinarie e che, in fondo, questa sofferenza condivisa ci avrebbe reso veramente persone migliori. Che dopo un anno saremmo tornati a guardare un film al cinema, uno spettacolo a teatro e che saremmo andati a un concerto, che il tempo avrebbe lenito il dolore di tante morti, avrebbe metabolizzato il terrore provato.

In fondo le pandemie ci sono sempre state, tutto passa, ma nel frattempo una società frana sotto il peso delle chiusure forzate, degli ospedali pieni di malati, delle scuole che non sono più scuole, delle attività che muoiono, del virus che muta. Un anno fa tutto questo sembrava solo un incubo che sarebbe passato. E invece eccoci qua a fare "rewind", a riavvolgere il nastro per rivedere lo stesso film. I bambini hanno imparato a portare la mascherina e a disinfettarsi le mani di continuo, ma hanno disimparato a stare in compagnia, a condividere, a fare ricreazione tutti insieme e a tremare per l'interrogazione. Noi adulti siamo stati pazienti, ligi, impauriti, speranzosi, poi indisciplinati, no-mask, no-vax e vergognosamente egoisti. Poi abbiamo imparato a fare il pane a casa, a cantare sui balconi, a lavorare in smart working e ci siamo abituati a parlare di Covid ogni singolo minuto della giornata.

Un anno fa non avremmo mai pensato di dover convivere con tutto questo. Ma piano piano, col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi, abbiamo capito che un anno non sarebbe bastato. Abbiamo interiorizzato questa pandemia, abbiamo smesso di considerare tutto questo surreale e abbiamo cominciato a considerarlo molto più reale di ciò che avevamo prima. Perché c'era un prima, ma il problema è che per ora non c'è un dopo, semmai un durante, infinito e sfiancante. Dopo un anno siamo ancora fermi sui nostri divani, davanti ai nostri computer accesi sul mondo, connessi a tutto e a niente, soli coi nostri demoni. Abbiamo imparato a non sperare troppo, a non sognare troppo, a non fidarci troppo, a non crederci troppo per il timore di essere delusi. Abbiamo imparato ad accettare questo virus, a considerarlo parte della nostra nuova normalità, anche se stanchi ed esasperati.

Così abbiamo ceduto agli assembramenti nel weekend e agli aperitivi, alle festicciole in casa di amici e alle file davanti ai bar con la mascherina abbassata. Abbiamo superato la rabbia e la speranza con l'apatia e la rassegnazione. Abbiamo cominciato a pensare che "tanto prima o poi tocca a tutti". Dopo un anno c'è il vaccino ma non è bastato ad evitare un'altra chiusura. È l'unica arma che abbiamo ma non basta per vincere la guerra. Almeno non per ora. Forse tra un anno.