Una storia marcia

28.10.2022

Oggi ricorre il centenario della Marcia su Roma, che all'indomani dell'insediarsi di un governo di destra può indurre alla peggiore tentazione: parlare di ieri per farlo pesare oggi. Invece bisogna parlarne guardando al futuro, frugando nella nostra storia per agguantarne la parte viscida e ripugnante che non ha cessato di essere presente. Quindi vorrei liquidare subito il presente per poi passare a quello che conta: il permanente.

Prima delle elezioni, dissi che l'eventuale vittoria elettorale della destra non sarebbe stato il preludio di alcun regime. Destra e sinistra si sono reciprocamente rimproverate, per decenni, di volerne costruire uno, dimostrando di non avere altri argomenti da spendere. Dopo l'esito elettorale, il 16 di ottobre - giorno in cui, nel 1943, gli italiani ebrei furono rastrellati a Roma e inviati alla morte - l'onorevole Meloni disse due cose: quella vergogna non si cancellerà mai; la sua matrice era nazifascista. Nel discorso parlamentare per la fiducia, il 24 dello stesso mese, aggiunse di non avere mai avuto alcuna simpatia per le dittature, fascismo compreso. Magari poteva dirlo prima.

Si può non condividere una parola di quel che dice e non una cosa di quel che farà, ma su questo delicato fronte considero chiusa la questione. Ma non lo è per l'Italia e non lo è per il tempo successivo al regime fascista, che svergognò e distrusse la Patria. Non lo è perché un giovane aveva capito, un giovane che oggi considereremmo quasi un ragazzino, uno che ebbe il coraggio di opporsi e che fu massacrato dai picchiatori fascisti causandone la morte: sto parlando di Piero Gobetti. Questo ragazzo vide che il fascismo era l'autobiografia della Nazione, e una biografia non si cambia, come non si cambia la storia.

Il fascismo fu violenza anche prima di divenire regime, fu violenza anche prima della Marcia su Roma, fu violenza anche prima dell'assassinio di Giacomo Matteotti (che non fu eliminato perché oppositore ma perché aveva le prove della corruzione di Mussolini, dalle cui tasche non caddero soldi dopo la sua caduta perché li aveva messi altrove). Ma il fascismo non fu solo violenza, non solo con quella conquistò un consenso vastissimo, di cui la nostra biografia resta colpevole. Il fascismo fu anche altro. Dobbiamo a Carlo Emilio Gadda una descrizione contemporanea del suo sudiciume morale. Descrisse Mussolini, allora acclamato come "duce" secondo i grotteschi dettami dannunziani, come un demagogo somaro e maramaldo. E non mancò di descrivere i suoi accoliti non come patrioti ma "associati a delinquere", ai quali per un ventennio è stata data licenza di "stuprare l'Italia" fino alla rovina. Li vide nella loro miseria, immaginandoli al funerale di un loro camerata mentre urlavano «Presente!» e subito dopo si sedevano a tavola per abbuffarsi.

Oggi non ci sono ex gerarchi fra i viventi e, del resto, la Costituzione ne stabilì l'esclusione dalla vita politica per cinque anni, scaduti nel 1953. Ma ci sono quelli che tengono a casa il testone del "demagogo somaro e maramaldo", allevati nel culto dell'avversità alla libertà e alla democrazia. La loro colpa non è connivenza con il regime, che non vissero, ma con la sua tarocca apologia che perpetrarono, e facendolo aizzarono una manica d'assassini neri che se la videro con gli assassini rossi, parimenti allucinati, parimenti nemici della democrazia, parimenti avversi alle democrazie occidentali. E questa è storia. Una storia marcia ancora da digerire.