
E' tutta musica leggera
La cura. Battiato canta l'Altro, nell'abbraccio dell'amore assoluto e incondizionato
Tesserò i tuoi capelliCome trame di un cantoConosco le leggi del mondoE te ne farò dono
"Alla fine della nostra vita non conteranno le nostre prestazioni e le opere compiute. Non ci sarà chiesto se eravamo cattolici o protestanti o cos'altro. Le testimonianze di "esperienze di premorte" ci dicono che prima di tutto e soprattutto dovremo chiederci quanto abbiamo amato".
Scritta a quattro mani con il filosofo-poeta nichilista Manlio Sgalambro, che presterà anche, in alcuni dischi (e piuttosto goffamente dal vivo) la sua inconfondibile voce recitante; uscita nel 1996, nell'album L'imboscata, La cura è diventata immediatamente uno dei pezzi più amati della musica italiana, un successo intramontabile. Una meravigliosa, aulica e solenne dichiarazione di amore assoluto, incondizionato, che si libra in un'aura celeste di utopia, di devozione, di sacralità, e insieme di ricerca interiore, di definizione della propria segreta, intima essenza. Al di là delle mode, del tempo, delle stagioni.
Meravigliosamente orchestrata, introdotta da una sapiente tessitura vocale e strumentale, sostenuta da una nuvola d'archi, intarsiata dalla chitarra elettrica di David Rhodes. Un'alchimia mirabile tra lo straordinario lirismo del testo e la suggestiva linea melodica, tra spessore filosofico e armonia compositiva. Un raro esempio di perfezione, che ottiene il "Premio Italiano della Musica", nel 1997. E quella voce monacale, dalle pieghe oniriche, di Battiato, in cui predomina il recitativo sul cantato; Una voce, come lui, carismatica e magnetica, e che profuma di terre lontane, capace di far risuonare corde profonde.
Ci si sente davvero rapiti in un'altra dimensione, "al di là del bene e del male", sospesi come su una nuvola, in viaggio (un viaggio quasi metafisico) verso inesplorati territori dell'anima, altri livelli di coscienza. Verso orizzonti sconfinati e mondi lontanissimi, dove sembra alitare un soffio cosmico. Parlami dell'esistenza di mondi lontanissimi, cantava in No time no space. "E' una canzone che ha un quid insondabile di ispirazione. (...) La cura è una di quelle che è arrivata da una cellula superiore. È arrivata come una piccola luce a toccarmi, e mi è bastata per scrivere questo pezzo. È stata vera ispirazione. Poi col mestiere aggiusti, crei, scrivi testi, questo e altre cose".
Una canzone d'amore di immensa fascinazione, che non nomina mai l'amore. Che evita, della persona amata, di abbozzare il ritratto e di operare, anche, una qualsiasi idealizzazione. Per concentrarsi, invece, totalmente, sull'impegno a prendersene cura, sulla promessa di dedicare a un tu indefinito, un essere speciale (a cui ognuno potrà dare un nome, un volto, un'anima) la propria vita. Con il compito di colmare le sue mancanze, proteggerlo, confortarlo. Fino ad arrivare ad una sovrumana e umanissima aspirazione: piegare le leggi fisiche, bloccare la fuga inesorabile del tempo, la sua furia cieca e distruttiva e fermare il naturale corso dell'invecchiamento.
Supererò le correnti gravitazionali
Lo spazio e la luce per non farti invecchiare
Un testo che è una meravigliosa poesia, chiara, limpida, "inesorabile". Aperta, tuttavia, ad ogni sensibilità, esperienza, lettura. Su di esso si è infatti scatenato un vortice ermeneutico e molti critici, o anche semplici ascoltatori, si sono sbizzarriti a tentarne un'esegesi. D'altra parte, sappiamo bene che la grande arte è simbolica. E che, come ha spiegato bene Sartre, la poesia e la letteratura vivono grazie a chi le legge e attribuisce loro un senso, un significato.
La canzone d'amore è un terreno minato. Si finisce spesso per affondare nella melassa di abusati cliché linguistici e contenutistici, di inciampare nelle tante trappole della retorica, disseminate lungo il suo percorso. Una retorica della quale, invece, ne La cura, non si rinviene la più pallida ombra. Così semplice, "definitiva", e insieme così profonda, misteriosa, insondabile, da catturare, emozionare e commuovere. Una canzone che scava una breccia nell'anima, lasciandovi una traccia profonda. Cura è aprirsi all'Altro; far posto, dentro di sé, a un corpo e un'anima. È accogliere, custodire, sollevare chi è nel bisogno e nell'ingiustizia. È tenere per mano un essere speciale, verso cui si è tesi e protesi. È essere sempre, nel nostro transito terrestre (l'espressione è anch'essa di Battiato), aperti al dare, al donare. A medicare, nell'Altro, le paure, i turbamenti, i fallimenti, i dolori, le ingiurie del tempo e le offese del destino. Altro nome per evocare le leggi imponderabili e ineluttabili che governano la nostra condizione.
Un'apertura dell'essere che si misura in gesti concreti di attenzione e "devozione". Silenzio e pazienza sono le ancelle che ci accompagnano in questo viaggio verso l'essenza della vita e del sentimento. L'uso insistito di verbi coniugati al futuro (ti porterò, supererò, ti salverò...), la dimensione temporale più evocata nel testo, sottintende impegno, dedizione, determinazione. Fino ad arrivare a quel verso colossale, da brividi: Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto.
"Secondo me, volere veramente bene a una persona vuol dire anche non aspettarsi niente di ritorno. Sono quelle le cose segrete che mirano veramente in alto, perché se tu passi dal glorificare il tuo compagno e nell'arco di un mese diventa uno stronzo testa di c... c'è qualcosa che non va. Questo vuol dire che qualcosa ferisce il tuo orgoglio: stai amando te, o meglio: vuoi qualcuno che ti ami come tu vuoi e non accetti altro che quello. Se tu vuoi veramente bene ad una persona, invece, devi accettare l'idea che il tuo ragazzo ami un'altra ragazza e tu gli vuoi lo stesso bene. Perché non deve cambiare niente, non è in rapporto a qualcosa che ti dà ma in rapporto a quello che lui è".
"Lasciar essere l'altro ciò che è", come scriveva Norberto Bobbio nel suo Elogio della mitezza. Il suo testamento civico, sogno di un mondo in cui la sobrietà, la dolcezza, la "gentilezza dei costumi", diventino "pratica universale".
Scrive Emmanuel Lévinas, in Etica e infinito: "È quando vedi un naso, una fronte, un mento, e li puoi descrivere, che guardi gli altri come oggetti. Il miglior modo per incontrare gli altri è il non far caso neppure al colore degli occhi".
E ancora: "L'uomo è un'esistenza che parla. Rispondere a qualcuno è già rispondere di qualcuno".
La canzone è un viaggio di liberazione, da una sofferente condizione di vuoto, di smarrimento e infermità esistenziale; da un andare cieco, errabondo, brancolando senza meta tra le nebbie opache dei giorni (in un frenetico girare in tondo, inseguendo l'ombra di sé stessi, fuggendo se stessi), a una dimensione di pienezza interiore, terrena e ultraterrena.
Vagavo per i campi del Tennessee
Come vi ero arrivato, chissà
Non hai fiori bianchi per me?
Più veloci di aquile i miei sogni
Attraversano il mare
Qui il bianco del fiore ha una forte valenza spirituale, simboleggiando la gioia, la verginità, la purezza e l'innocenza. Il colore liturgico, le vestali, l'agnello, la bianca colomba della pace. Il grado zero del colore come immagine del divino e della felicità. Contrapposto al nero, la veste del lutto. "Non è il bianco che allontana l'oscurità?", si chiedeva Wittgenstein, nelle Osservazioni sui colori. Il bianco, in opposizione alla "nera" malinconia. Quella "nera, barbara orrenda malinconia" che ottenebrava Leopardi.
Un colore, il bianco, che può tuttavia essere diversamente declinato, che può assumere un'altra valenza, un'altra simbologia. Che evoca irresistibilmente, sul piano letterario, Moby Dick, il capolavoro di Hermann Melville. Lo "spettro bianco" del mitico, gigantesco cetaceo, simbolo abbagliante di inconoscibile, terrorizzane energia, potente allegoria del mistero, del male e dell'assurdità del vivere. Bianco (ricorrente mito melvilliano) come terribile, primordiale verità che giace al fondo delle cose e che spaventa più del rossore del sangue. Ne La cura, sublime, struggente canzone d'amore, il bianco evoca dunque, come detto, una dimensione spirituale. Non è il colore comunemente inteso della passione. Non simboleggia la fiamma ardente che avvolge gli amanti. Quel rosso di una meravigliosa ballata di Capossela, Con una rosa:
Come la porpora che infiamma il mattino
Come la lama che scalda il tuo cuscino
Come la spina che al cuore si avvicina
Rossa così è la rosa che porto a te
Nella filosofia di Martin Heidegger, che l'ha introdotto nel lessico filosofico, il termine cura ha una doppia valenza. "Prendersi cura", delle cose che ci circondano. E "aver cura": per l'altro, per gli esseri, per il vivente. È proprio questa "apertura" il carattere distintivo e costitutivo dell'umano, il fondamento dello stare al mondo. Originariamente con gli altri, e dunque verso gli altri. L'essere dell'esserci è la cura, l'intima consapevolezza che l'essere davanti a noi è qualcosa di unico, singolare, irripetibile. Che il suo Volto nudo e sacro ci interroga, ci chiama a una preoccupazione, una sollecitudine, una premura. Per "legare" e armonizzare la nostra persona. Perché, scrive Rilke, "sia della carne o dello spirito la fecondità è una: poiché l'opera dello spirito procede dall'opera della carne e partecipa della sua natura".
Parole che fanno correre il pensiero al Cantico dei cantici (nell'Antico Testamento), a quel testo originale e sorprendente attribuito al re Salomone. In cui corpo e anima, sacro e profano, dimensione erotica e dimensione spirituale si richiamano, si accordano, si confondono, nella congiunzione appagata degli amanti. Una riconciliata comunione, un eros redento.
È da quella "canzone delle canzoni", da quella sublime poesia, che i profumi inebrianti saranno sicuramente trasmigrati in un verso de La cura: i profumi d'amore inebrieranno i nostri corpi.
In Essere e tempo, Heidegger, riesumando un'antica raccolta di favole di Igino, autore latino, rinviene proprio nel mito di Cura il fondamento dell'essere. "Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po' e cominciò a dargli forma. Mentre cerca di capire quello che ha fatto, interviene Giove. Cura lo prega d'infondere lo spirito alla forma cui ha dato vita, e Giove acconsente. Ma quando Cura pretende di dare nome a ciò che ha fatto, Giove glielo proibisce volendo imporre un proprio nome. Mentre Giove e Cura disputano sul nome, interviene anche la Terra, reclamando a sua volta che a ciò che era stato fatto venisse dato il suo nome, perché essa aveva offerto una parte di sé, quel fango cretoso da cui Cura aveva cominciato. Giove, Terra e Cura, i tre contendenti, scelsero Saturno come giudice nella loro disputa. E Saturno arrivò a questa decisione: 'Tu, Giove, che hai messo lo spirito al momento della morte riceverai lo spirito; tu Terra, che hai dato il corpo riceverai il corpo. Ma Cura che per prima ha dato forma a questo essere lo possederà fino alla fine della sua vita. E il suo nome sarà HOMO, perché è fatto di Humus"'.
Cura è dunque custode dell'umano, ricompone l'infranto, sana le lacerazioni e le ferite, ridà dignità e vita a ciò che pencola disperatamente sul bordo del mondo. Ad essa, che ha impastato col "fango" le nostre carni, è assegnata la primogenitura dell'umano e la prossimità ai viventi, fino alla morte. Un esercizio di umanità e un'assunzione di responsabilità che trovano il loro orizzonte nell'ascolto del mistero e del battito dell'Altro, di cui siamo custodi. Come se la sua vita dipendesse dalla nostra vita e la nostra salvezza dalla sua salvezza. Alla domanda di Caino: "Sono forse io il custode di mio fratello?", una domanda che profondamente ci coinvolge, ci interpella, possono valere, in questo senso, come risposta, le parole dell'apostolo Paolo: "Portate i pesi gli uni degli altri". Il Prossimo è dunque, come dice Gesù nel Vangelo, chiamando i cuori a conversione, colui di cui decido di prendermi cura.
È la pazienza, insieme al silenzio, l'altra virtù sottolineata dalla canzone. "La più eroica delle virtù, giusto perché non ha nessuna apparenza d'eroico", annota Leopardi nello Zibaldone. Quella pazienza che, scrive ancora Lévinas, "attende senza attendere", perché è una risposta che, a differenza dell'attesa, non ha fine, non si esaurisce quando si manifesta il suo oggetto. Aggiungendo, a chiarire il pensiero: "Nell'attuale crisi morale, ciò che resta è solo la responsabilità per altri, responsabilità senza misura, che non somiglia a un debito: nei confronti dell'altro, infatti, non si è mai sdebitati".
Cura è dunque essere aperti al donare, a una gratuità che non si interroga sul suo esito, sul suo successo. A una carità di stampo tolstojano, come quella che si manifesta tra le pagine di Padrone e servo (1895), un breve racconto del grande narratore russo.
Nell'animo del padrone che, durante una furiosa tempesta di neve, nel gelo, tra lupi che ululano e in balia di un vento tormentoso (una natura spaventosa e ostile, che simboleggia l'aggressione metafisica del Male) vede nel servo, che rischia la morte, un suo fratello di destino. Si stende su di lui per proteggerlo e riscaldarlo (ti proteggerò, come nella canzone) e in questo gesto di disinteressata umanità, che lo porterà a morire al suo posto, ritrova la vita, nel momento stesso in cui la perde. E dalla "notte oscura" in cui era dispersa la sua anima, reclusa in una distruttiva cupidigia e in un'opprimente avidità, nello stordimento dell'economicismo, nell'ossessione per il capitale, il denaro, la vertigine dell'accumulo, si libera un tempo nuovo. Una dannazione l'aveva spinto, con una slitta a cavallo, a sfidare le intemperie, per concludere in fretta un acquisto nel vicino villaggio, nel timore che qualcuno potesse soffiargli un affare vantaggioso. Ma ora il suo gesto di fratellanza gli spalanca l'orizzonte del senso, della comune umanità, e il mondo appare, dopo la sua "conversione", nella luce della verità. "'Ah, vedi, e dicevi che morivi. Sta' disteso, scaldati, ecco come facciamo noialtri...' cominciò a dire Vasilij Andreitch. Ma con suo grande stupore non riuscì a dire altro, perché le lacrime gli spuntarono negli occhi e la mascella cominciò a tremargli forte. Smise di parlare e si limitò a inghiottire quel che gli stava salendo in gola. 'Mi devo essere proprio spaventato tanto, da esser così debole adesso', pensò di sé. Ma questa debolezza non soltanto non gli riusciva sgradita, ma gli procurava una gioia particolare, che non aveva ancora mai provato. 'Ecco come siamo noi', diceva a se stesso, provando una commozione particolare, trionfante. E per un tempo piuttosto lungo rimase disteso così, asciugandosi gli occhi sul pelo della pelliccia e infilandosi sotto il ginocchio il lembo destro della pelliccia, che il vento continuava a rivoltargli. Ma aveva una voglia appassionata di parlare a qualcuno di quella gioia che si sentiva dentro. 'Nikita!', disse. 'Sto bene, sto caldo', si sentì rispondere da sotto. 'E così, fratello, io ancora un po' ed ero perduto, sai. E tu ti saresti congelato, e anch'io...' Ma di nuovo cominciarono a tremolargli i pomelli, e di nuovo gli occhi gli si riempirono di lacrime, e non riuscì a dire nient'altro. 'Be', non importa' pensò. 'Quel che so, lo so io per conto mio'. E tacque. Così rimase a lungo. Sentiva caldo da sotto, perché c'era Nikita, e sentiva caldo anche da sopra, perché sopra c'era la pelliccia; soltanto le mani, con cui egli teneva le falde della pelliccia sui fianchi di Nikita, e le gambe, da cui il vento continuava a rovesciargli via la pelliccia, cominciavano a gelarglisi. Gli si stava gelando in particolar modo la mano destra, che era senza guanto. Ma lui non pensava né alle sue gambe, né alle sue mani, ma pensava soltanto a scaldare il meglio possibile il "mugik" che gli giaceva sotto".
Cura è dunque far dono di sé, del proprio tempo, della propria vita, all'Altro. Ma in una prospettiva religiosa, soprannaturale (una dimensione intrinseca, connaturata alle canzoni di Battiato, al suo "sentire" mistico, "sacrale") la vita stessa è un dono. Come in una bellissima lirica di Boris Pasternak, All'ospedale.
Dove il nuovo arrivato avverte, dalle domande dell'infermiera,/da quel suo scuotere la testa,/(...) che da quella storia/ difficilmente sarebbe uscito vivo. E osserva, come da un altrove, da un'altra dimensione, con uno sguardo grato, colmo di doloroso amore, di incolmabile, immedicabile nostalgia, lo spicchio di mondo sfolgorante ritagliato dal rettangolo della finestra. Il malato sa riconoscere, nella notte della morte, la mano di Dio, la "perfezione" delle sue azioni, del suo "disegno". Sente la sua amorevole presenza. E, nella sua vita che si compie, rischiarata dal calore della sua vicinanza, ravvisa un inestimabile dono; insieme alla cura straordinaria di chi "ripone" come un anello nell'astuccio.
(...)
La finestra ritagliava in un quadrato
una parte del giardino e un lembo di cielo.
Alle corsie, all'impiantito, ai camici
s'abituava lo sguardo il nuovo arrivato.
(...)
Allora dette uno sguardo grato
alla finestra dietro cui il muro
era come illuminato
d'una scintilla d'incendio dalla città.
Là, nel bagliore, rosseggiava la barriera,
e nel riverbero della città, un acero
con un ramo contorto si sprofondava
davanti al malato in un inchino d'addio.
"O signore, come sono perfette
le tue azioni", pensava il malato.
"I letti e gli uomini, e le pareti,
la notte della morte e la città di notte.
Io ho preso una dose di sonnifero,
e piango tormentando il fazzoletto.
O Dio, lacrime d'emozione
m'impediscono di vederti.
M'è dolce, alla luce opaca
che cade appena sul letto,
riconoscere me e la mia sorte
come un inestimabile dono.
Morendo in un letto d'ospedale,
sento il calore delle tue mani.
Mi tieni come un tuo prodotto,
e mi riponi come un anello nell'astuccio.
Siamo così condotti, sulla scia di queste riflessioni, ad affacciarci su un orizzonte morale più vasto e comprensivo. Ad ascoltare il grido muto della creatura impotente, inerme, indifesa. A dismettere la paura, a disarmare l'indifferenza, a seppellire la durezza e l'arroganza, ad abbracciare la segreta, impervia bellezza della compassione, per chi arranca, nudo e scalzo, nelle ombre della sventura e della storia. Ad aver cura del vivente, nostro specchio, schiavizzato, deportato, svuotando terre, incendiando città. Murato dentro una notte smisurata. Arenato, spiaggiato sulla soglia delle nostre vite, viaggiatore nella polvere e nel vento, colpevole d'erranza. A sostare, con tenace, paziente fedeltà, accanto all'uomo smarrito, infangato, oltraggiato, piagato nella carne e nell'anima, inchiodato alla terra, l'uomo che non vuole morire, defraudato di pietà e dolcezza, deprivato dal sollevare lo sguardo verso uno spicchio di cielo, verso la bellezza. Una sincera lacrima dura più del bronzo, scrive Emily Dickinson. E Simone Weil: "Il dolore ci inchioda al tempo. Ma l'accettazione del dolore ci trasporta al termine del tempo, nell'eternità".
Simone Weil, la grande pensatrice francese, di origine ebraica, che, pura, radicale, intransigente, refrattaria a ogni compromesso, animata dalla devozione alla verità, da una irriducibile coerenza morale e da un'appassionata tensione mistica ("Il solo grande spirito del nostro tempo", disse di lei Albert Camus) a 25 anni, nel 1934, si fa assumere come fresatrice nelle officine Renault, per sperimentare "nell'anima e nella carne", l'oppressione della catena di montaggio, la fatica bruta, umiliante, del lavoro manuale, la mortificante monotonia e la devastazione interiore della condizione operaria. Perché il comunismo non fosse solo il sogno di una comunità futura, ma viva, concreta empatia, attiva carità e immediata fraternità, totale condivisione dell'esistenza degli sfruttati, del loro muto dolore, come un rassegnato, ineluttabile destino. Prossimità alla "sventura" dell'Altro. Scrive nel Diario in fabbrica: "Bisogna preferire l'inferno reale al paradiso immaginario (...). Stando in officina, confusa agli occhi di tutti e ai miei propri occhi con la massa anonima, la sventura degli altri mi è penetrata nell'anima e nella carne. Non c'era nulla che me ne separasse, poiché avevo realmente dimenticato il mio passato, senza prospettarmi alcun avvenire, e potevo difficilmente immaginare di riuscire a sopravvivere a quelle fatiche. Ciò che lì ho subìto mi ha segnata in maniera così duratura che a tutt'oggi, quando un essere umano, chiunque esso sia, in una qualsiasi circostanza, mi parla senza brutalità, non riesco a evitare l'impressione che vi sia un errore, e che purtroppo l'errore si chiarirà. Laggiù mi è stato impresso per sempre il marchio della schiavitù, quello che i Romani imprimevano con il ferro rovente sulla fronte dei loro schiavi più disprezzati. Da allora mi sono sempre ritenuta una schiava".
Una strada lastricata di umiltà, condivisione, attenzione all'Altro, un cammino dentro la vita che permette all'anima di nutrirsi di un "pane soprannaturale". "Colui", scrive ancora, "che sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane soprannaturale o cade".
Simone Weil, l'operaista, la mistica. La sua purezza di esperienza, il suo estremismo esistenziale, quella volontà appassionata sempre tesa verso gli altri, a realizzare una concreta, fattiva solidarietà (militerà nel sindacato, parteciperà alla guerra civile spagnola e alla Resistenza), la porterà a logorarsi, a consumarsi, a sfinirsi, fino all'autoannientamento. Malata di tisi (una salute compromessa da un anno di duro lavoro in fabbrica), confinata nell'asettico esilio di un sanatorio inglese, si rifiuterà di assumere più della razione quotidiana di cibo che tocca ai resistenti francesi. Si affama, consegnandosi a un'anoressia disperata, e alla morte, a 34 anni.
"Mi piace aver contatto con le persone. Mi sembra che la mia intensa partecipazione porti alla luce la loro parte migliore e più profonda, le persone si aprono davanti a me, ognuna è come una storia, raccontatami dalla vita stessa. E i miei occhi incantati non hanno che da leggere. La vita mi confida così tante storie, dovrei raccontarle a mia volta, renderle evidenti a coloro che non sono in grado di leggerle direttamente. Mio Dio, mi hai concesso il dono di poter leggere, mi concederesti anche quello di poter scrivere?".
Così la giovane ebrea olandese Etty Hillesum, che, anche mentre il cerchio dell'orrore, della furia antisemita ("un destino di massa") si stringe come un cappio al collo intorno a lei (morirà ad Auschwitz, nel 1943) continua a nutrire il suo immenso amore per la vita, la sua fame inestinguibile di bellezza, la sua fede incrollabile in Dio e nella bontà dell'essere umano, la sua idea di donarsi, di poter essere sempre di aiuto agli altri. E ad allontanare da sé ogni grammo di odio, che renderebbe il mondo più "inospitale". Consegnandoci un Diario intensissimo e sorprendente, struggente, spirituale, rischiarato da un luminoso messaggio poetico: "Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera".
Solo la solidarietà aiuta a resistere. Chi parla di vittoria? Resistere è tutto, scrive Rainer Maria Rilke. Questo è anche, nel suo romanzo-capolavoro La peste, il messaggio che Albert Camus affida alla voce ferma e pacata del protagonista-narratore, il dottor Rieux, anonimo eroe, emblema di autentica, profonda umanità. Un medico che, nello scenario apocalittico di un'immaginaria epidemia abbattutasi, dopo un'improvvisa moria di ratti, sulla quieta città algerina di Orano, nel 194... (in filigrana, la peste nazista che ottenebrava l'Europa; ma, su un piano più profondamente simbolico-metafisico, il Male che minaccia l'esistenza umana), si sforza coraggiosamente di lottare, di opporre alla paura la ragione. E mentre le cifre dei morti si affastellano, armato soltanto della sua eroica normalità, sceglie la strada dell'uomo in nome dell'uomo, si prodiga come può per aiutare chi è colpito dal flagello, per curare e guarire: "(...) una tale vertigine non reggeva davanti alla ragione. È vero che la parola "peste" era stata pronunciata, è vero che in quello stesso minuto il flagello scuoteva o abbatteva una o due vittime. Ma insomma, lo si poteva fermare. Quello che bisognava fare era riconoscere chiaramente quello che doveva essere riconosciuto, cacciare infine le ombre inutili e prendere le misure necessarie. Poi la peste si sarebbe fermata, in quanto la peste non la si immaginava o la si chiamava falsamente. Se si fermava, ed era la cosa più probabile, tutto sarebbe andato bene. Nel caso contrario, si sarebbe saputo che cosa fosse, e se non vi fosse modo d'adattarvisi prima per vincerla poi (...) Rieux si scosse: là era la certezza, nel lavoro di ogni giorno. Il resto era appeso a fili e movimenti insignificanti, non ci si poteva fermare. L'essenziale era di fare bene il proprio mestiere".
Chi fa bene il proprio mestiere "salva il mondo", come ne I giusti, una meravigliosa poesia di Borges. E Rieux non si sottrae all'appello della sua morale laica. Benché abbia la moglie, a sua volta malata, ricoverata nell'ospedale di un'altra città: "Nulla al mondo vale che ci si distolga da quello che si ama. E tuttavia me ne distolgo anch'io, senza poterne sapere il perché".
Nell'ultima pagina del romanzo il narratore chiarirà il motivo che l'ha spinto a redigere il racconto: "(...) per non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell'ingiustizia e della violenza che gli erano state fatte, e per dire semplicemente quello che s'impara in mezzo ai flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare".
Una canzone, La cura, la cui ineguagliabile luminosità riverbera i suoi bagliori anche nelle pagine finali di Una storia romantica, romanzo di Antonio Scurati. Che ne prende a prestito alcuni versi, nella lettera che fa consegnare da Jacopo ad Aspasia, poco prima di morire. "Quando leggerai queste mie parole, Aspasia, sarò già sull'altra sponda. Da quell'altra sponda, amore mio, io ti proteggerò e avrò cura di te. Sarò nell'acqua che ti irrorerà il ventre, sarò il ramo arso per le ore fredde dei tuoi inverni, sarò nel vento che tesserà i fili bianchi dei tuoi capelli come le trame di un canto, nel sonno ti medicherò quei lividi degli occhi che in vita ho tanto amato, ti indicherò la tua destinazione in quel bagliore dell'origine di cui in vita ebbi tanta paura, sarò la stella della sera che brillerà sul tuo crepuscolo. Poi, alla fine, sarò anche il crepuscolo".
"Una delle più belle canzoni d'amore che io conosca", ha affermato lo scrittore.
"La cura", ha confessato Battiato, "è una delle tre o quattro canzoni d'amore che avrò scritto nella mia carriera".
Canzoni d'amore che, ormai risulterà chiaro, non hanno per oggetto o destinatario una figura femminile, in carne ed ossa. Quello che, insomma, si intende comunemente per canzone d'amore. Lo sottolinea egli stesso, in maniera dura, radicale, definitiva: "La passione è una malattia, una zavorra che ci trascina verso il basso. Di amori riusciti, a esser generosi ce n'è uno su un miliardo. Io non sono mai stato innamorato". E ancora, a meglio chiarire il suo pensiero: "Sono stato innamorato, a sedici anni (...) Lei mi faceva tremare le gambe. Fu bello, perché finì lì. Un altro anno di quei tremblement mi avrebbero ucciso. So cosa vuol dire, ho provato quell'ebbrezza. Ma ora stiamo parlando dell'amore cosciente, quello che arriva dopo. Mai accettata l'idea dell'innamoramento come perpetuazione del malessere, quando nella coppia iniziano i sadismi... È umiliante. No, no, da qui non passa. Vogliamo chiamarlo amore? Quell'uno su un miliardo si verifica quando due stature di altissimo livello si incontrano; allora non si litiga per un dentifricio, e il calo del desiderio non è la ragione sufficiente per una separazione".
Scrive Fernando Pessoa, che sembra, qui, quasi esplicitare e commentare il pensiero di Battiato: "Non l'amore, ma i suoi dintorni valgono la pena... La sublimazione dell'amore illumina i suoi fenomeni con maggiore chiarezza della stessa esperienza. Ci sono verginità di grande comprensione. Agire compensa ma confonde. Possedere significa essere posseduto e dunque perdersi. Soltanto l'idea raggiunge, senza sciuparsi, la conoscenza della realtà".
Si inscrive, dunque, quella sua manciata di "canzoni d'amore", all'interno di una continua, insonne ricerca dell'assoluto, che costituisce il filo rosso del percorso artistico ed esistenziale del geniale poeta-musicista-filosofo catanese. Definirlo semplicemente cantautore è sicuramente riduttivo. Un percorso lontano dalle cose del mondo e alieno dalle logiche di mercato. Sempre all'insegna della ricerca, della sperimentazione più ardita e avanguardistica. Dell'eclettismo, della contaminazione tra alto e basso, classico e popolare, antico e moderno, Oriente e Occidente, presente e passato millenario. Rifuggente, sempre, dai miasmi delle immondizie musicali, da cui siamo costantemente, tristemente sommersi.
Come cantava in Bandiera bianca, in quell'album epocale che è La voce del padrone (1981). Un geniale pastiche culturale e linguistico post-moderno, un assemblaggio di citazioni colte e ironiche. Un turbinio di nonsense, aforismi e paradossi, di curiosi e stranianti accostamenti tra filosofia, religione, politica, musica, pubblicità. Materiali eterogenei, frullati insieme a fascinose suggestioni elettro-pop, fraseggi classici e reminiscenze della tradizione canzonettistica italiana. Montati e "centrifugati" a ricreare strepitose canzonette, da cantare "sotto la doccia". Ammalianti melodie che riuscirono magicamente a "sposare" i gusti dell'élite con quelli della gente comune. Un album che permise a Battiato ("musicista totale", secondo la definizione di Giorgio Gaslini; e"arabo mitteleuropeo": qui è Gianni Borgna a parlare), all'alba degli anni '80, di scalare portentosamente le classifiche (più di un milione di copie vendute), di mettere d'accordo critica e pubblico e di diventare una star.
Scrive Gino Castaldo: "Se oggi della canzone italiana abbiamo una visione così prodigiosamente ampia, lo dobbiamo anche al progetto musicale di Franco Battiato, alle sue libere associazioni, alle sue schegge di pensiero, agli sguardi indiscreti su mondi che non avevano mai fatto parte del mondo della canzone. Se immaginassimo una sua ideale, inesistente, canzone delle canzoni, parlerebbe dell'orgoglio della ragione, del silenzio temprato nell'acciaio, di rumori che deridono la piccolezza degli uomini, di rifrazioni mozzafiato, di concatenazioni verbali dalle quali si può quasi per un incidente casuale, intravedere la potenza dell'universo".
Un percorso musicale, il suo, sempre impegnato in uno slancio mistico e spirituale. E tra i brani più significativi, in questo senso, quelle "tre o quattro canzoni d'amore" che ha confessato di aver "scritto". Che oltre, naturalmente, a La cura, si potrebbero individuare in Oceano di silenzio, E ti vengo a cercare e L'ombra della luce. Testi meditativi, colmi di ipnotiche atmosfere, di riferimenti al pensiero orientale, a una religiosità mistica, esoterica. "La cultura orientale, quella dell'Asia Minore, è all'inizio di tutto il nostro genere di civiltà. Come tutte le cose già grandi, è passibile soltanto di deterioramenti. Nel senso che, toccato il massimo splendore, sia culturale che oggettivo, il mondo nato, originato dall'Asia Minore non poteva far altro che tornare indietro. È, in sostanza, quello che è successo a noi (Grecia, Roma, ecc.): ed è per questo che ho guardato e continuo a guardare alle mie radici".
E ti vengo a cercare
Anche solo per vederti o parlare
Perché ho bisogno della tua presenza
Per capire meglio la mia essenza
Questo sentimento popolare
Nasce da meccaniche divine
Un rapimento mistico e sensuale
Mi imprigiona a te
Nel brano, che si snoda dentro un arrangiamento "asciugato" e una linea melodica in crescendo, con un maestoso finale orchestrale, è possibile rinvenire, come ne La cura, una doppia chiave di lettura. Ma, assai più che in quel brano, il tu a cui si rivolge la voce salmodiante di Battiato, sta a rappresentare qui non tanto un'altra persona, destinataria del sentimento amoroso. Quanto, su un altro livello, più profondo e più alto, una ricerca delle proprie radici esistenziali, della propria anima ed essenza più segrete. E insieme di una presenza spirituale, sovrumana e trascendente, che liberi, emancipi, dall'incubo delle passioni: l'Uno, al di sopra del Bene e del Male. Per attingere la serenità, l'armonia e la pace di uno stadio superiore dell'essere e librarsi verso i regni di quiete. Un'altra dimensione, altri livelli, superiori, di coscienza e spiritualità, una luce dove anche ci trasporta Oceano di silenzio. Musica meditativa, un arrangiamento scarno ma straordinariamente suggestivo. "Più la musica è silenziosa, più si avvicina a Dio. (...) Anche se di solito la musica occidentale cede alla tentazione di sommare suoni e voci, per raggiungere alti livelli spirituali è molto meglio togliere, sottrarre. E puntare a qualcosa di simile al silenzio". Poche parole che risplendono sopra un delicato tappeto di archi. Con Donatella Saccardi e il coro dell'orchestra che intonano, in tedesco, dei versi da Le statue d'acqua, di Fleur Jaeggy.
Il dolore, l'arresto della vita
fanno apparire il tempo troppo lungo.
E mi pare quasi
che un'oscura reminiscenza mi dica
che io vissi in tempi lontani
lassù o nell'acqua.
Uno degli album, in questo senso, più significativi, in cui si manifesta la "cifra" più autentica della sua intensa ricerca e spiritualità è Come un cammello in una grondaia (1991; titolo preso a prestito da un esoterico cartografo persiano del XII secolo). Uno dei momenti più alti nella storia della nostra canzone d'autore su cui, in conclusione, vale la pena soffermarsi. Con quell'incipitfamosissimo, Povera patria, che subito tocca e scuote, emoziona.
Povera patria
Schiacciata dagli abusi del potere
Di gente infame, che non sa cos'è il pudore
Si credono potenti e gli va bene quello che fanno
E tutto gli appartiene
Tra i governanti
Quanti perfetti e inutili buffoni
Un'invettiva violenta, incisiva, implacabile, contro il Malpaese, questo stivale dei maiali, devastato dal dolore, cantata con un sussurro malinconico, straziato, senza più ombra di ironia, senza più voglia di scherzare, col tono di una dolorosa e accorata elegia. Intarsiata da un lento arpeggio di pianoforte, in una struggente atmosfera da lied classico. Un piccolo capolavoro di poesia, un gioiello di assoluta semplicità e di spietata, tagliente lucidità, incastonato in una musica soave, dolcissima, atmosferica, liberata dalle ingombranti zavorre di basso, batteria e chitarra elettrica. Una musica che è poi il sound personalissimo di Battiato. Un artista lontanissimo dalle mode effimere, passeggere, sempre teso a una ricerca che si modula su registri originalissimi, su percorsi quasi provocatori e "sovversivi", per stare al nostro panorama musicale, nel totale disinteresse delle regole di mercato, dei meschini compromessi che governano il mondo della canzone. Anche nella scelta di una vita eremitica, contemplativa, in una casa sulle pendici dell'Etna, dove tesse, con uguale passione, tappeti e geometrie musicali, tentando di saziare il suo bisogno di spiritualità, di raccoglimento interiore.
Nell'album precedente, lo splendido Fisiognomica (1988), il pezzo di chiusura, Oceano di silenzio, era come un ponte lanciato verso il futuro:
Un Oceano di Silenzio scorre lento
Senza centro né principio
Cosa avrei visto del mondo
Senza questa luce che illumina
I miei pensieri neri
Sulla scia di quel brano, il musicista siciliano, cerca, in questo disco, di conciliare le due dimensioni fondamentali della sua musica, le sue due direttrici di sviluppo, quella canzonettistica e quella operistica. Otto brani in questo Cammello, album insolito, inconsueto, affascinante. Quattro canzoni in italiano nella prima facciata e quattro lieder nella seconda, quattro brani tratti dal repertorio della musica classica e cantati nella lingua originale. Battiato canta le sue canzoni come fossero lieder, quasi un'attualizzazione, in chiave moderna, di questa forma musicale, di queste composizioni per voce solista e pianoforte che raggiunsero il loro fulgore durante il Romanticismo. Nel pezzo che dà il titolo all'album prevale ancora una dolorosa contemplazione delle miserie della nostra illustre e onorata società. Subito riscattata da una sublime preghiera, un momento di grande suggestione e bellezza, L'ombra della luce. Che si libera in un'atmosfera aerea, eterea, vagante, magicamente sospesa, intrisa di misticismo e profonda spiritualità, di cristiana pietas. Dentro un arrangiamento essenziale e rarefatto, che tende alla purezza del suono. Un morbido tappeto di tastiere e una lenta nuvola d'archi.
Difendimi dalle forze contrarie
La notte, nel sonno, quando non sono cosciente
Quando il mio percorso si fa incerto
E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai
Riportami nelle zone più alte
In uno dei tuoi regni di quiete
È tempo di lasciare questo ciclo di vite
E non abbandonarmi mai
E Battiato canta Schmerzen (Dolori) di Wagner, Plaisir d'amour (Gioia d'amore) di Martin, Gestillte Sehnsucht (Nostalgia placata) di Brahms e Oh sweet were the hours (Oh dolci furono le ore) di Beethoven, come fossero canzoni, rivisitandole con voce dolce e sommessa, strappandole a quell'aura accademica ed "elitaria", a quella remota lontananza che deriva dall'impostazione del canto lirico e avvicinandole, per così dire, all'umano, restituendole alla nostra sensibilità.
Le canzoni sono dunque spesso, in Battiato, preghiere, percorsi iniziatici di conversione e salvezza. "Quando sono in uno stato particolare, cerco di fermare il mio corpo, gli stati emozionali, i pensieri prodotti dalle associazioni. Un pezzo prodotto da questo stato mi sento di definirlo sacro". E forse Stranizza d'amuri è l'unica vera canzone d'amore nella sconfinata opera del musicista catanese. Che si esercita, piuttosto, a reinterpretare, nella trilogia di Fleurs, in un clima "confidenziale" e dolcemente nostalgico, di tenue, soffusa malinconia, canzoni d'amore altrui, pescate qua e là, negli anni '50 e '60.
Come ne La cura, la riflessione sull'amore coinvolge sempre, nelle canzoni dell'ascetico musicista catanese, un uomo al cospetto dell'infinito, dell'assoluto, dell'eterno. Perché anche le gioie del più profondo affetto o la vibrante intesa di tutti i sensi in festa, sono solo l'ombra della luce.
"Tutto qui in basso è simbolo e ombra", scrive ancora Pessoa. "Siamo convinti di vivere e siamo morti; crediamo di essere morti e stiamo vivendo".
Ed Emily Dickinson:
Se non avessi visto il sole
avrei potuto sopportare l'ombra
ma la luce ha reso il mio Deserto
ancora più selvaggio
Emily Dickinson, confinata in un volontario isolamento, nel perimetro circoscritto della casa paterna, a metà dell'Ottocento, ad Amherst, nel cuore dell'America puritana. Reclusa, con i suoi abiti bianchi, monacali, che sembrano vestiti della Prima Comunione (il bianco, come nella canzone di Battiato! I morti vestono di bianco), in una solitudine "sacrale", in una scelta estrema, eversiva, di intimità e libertà, di castità e devozione totale, assoluta, alla poesia. Tra i muri di una stanza che non ha pareti e che si fa universo intero. Come l'altra stanza, quella con alberi infiniti e il soffitto del cielo sopra gli amanti, della famosa canzone di Gino Paoli.
Mormorano che parlo molto poco
anima quelli che nulla sanno
dei nostri lunghi colloqui.
Sono versi nitidi e profondi di Miguel Hernández, che fotografano bene l'eremitico isolamento di Emily. Quella segretezza polare che è, scrive, un'anima al cospetto di se stessa:/infinità finita.
Da quella intensa clausura, in cui è inscritta la sua esistenza, lo sguardo di Emily si fa vivido, profondo, si spalanca, colmo di stupore, su un'incredibile vastità di scenari, esteriori e interiori. Rapito da certi mattini che incidono e dalla presenza ossessionante della morte. Preso nelle pieghe del tempo, tra deprivazione e ansia di immortalità. Riverberato nell'epigrammatica concisione di uno stile sincopato, nella nudità espressiva di versi accorati, limpidissimi e struggenti, carnali e visionari, profani e religiosi. Agognanti, in un'insonne ricerca, alonata di nostalgia, un Dio altero e distante, imperscrutabile, assente.
Come in una bellissima poesia che "scolpisce" la luce particolare della primavera, con un colore tutto suo, che scalda e graffia il nostro umano "sentire". Una luce insondabile e indecifrabile, il battito silente di un soffio d'oro che indugia e canta sul prato. Che bagna e indora, delinea e nomina le cose. E che la scienza non può spiegare. Una luce che è una presenza quasi religiosa, soprannaturale, come cantava in un'altra poesia, C'è una certa inclinazione di luce (lì era quella dei pomeriggi d'inverno: è una ferita celeste, quando viene il paesaggio ascolta/le ombre trattengono il fiato). Poi, eclissata e profanata dallo strepito quotidiano degli affari (come scrive la Szymborska), lentamente, irrevocabilmente scolora, passa e ci abbandona. Lasciandoci, l'anima rinsecchita, persi nella prosaicità del commercio, nel deserto della mancanza, nel vuoto gelido della perdita.
Una luce c'è in primavera
non presente nel resto dell'anno
in qualsiasi altra stagione -
Quando marzo è appena arrivato
un colore appare fuori
sui campi solitari
che la scienza non può sorpassare
ma la natura umana sente.
(...)
Poi come orizzonti arretrano
o il mezzogiorno trascorre,
senza formula di suono
esso passa e noi restiamo -
e una qualità di perdita
tocca il nostro sentimento
come se a un tratto il guadagno
profanasse un sacramento.
"Là dove la solitudine finisce, comincia il mercato; e dove il mercato comincia, là comincia anche il fracasso dei grandi commedianti e il ronzio di mosche velenose", scriveva, in Così parlò Zarathustra, Friedrich Nietzsche.
Ma è a Emily Dickinson, struggente, ostinata bambina, mendicante scalza nello spasimo del desiderio, mutilato e offeso, e nella solitudine polare di un orizzonte vuoto, ai suoi versi folgoranti, che spetta, proprio sul tema della cura, l'ultima parola, l'ultima battuta:
Se impedirò ad un cuore di spezzarsi,
non sarà stata vana la mia vita;
se allevierò di un uomo l'affannarsi,
se sanerò a qualcuno una ferita,
se aiuterò nel nido a ripararsi
l'ala di un pettirosso indebolita,
no, non sarà più vana la mia vita.