E' tutta musica leggera

Pino Daniele, Napul'è: splendore e amarezza


"Napule è 'nu paese curioso: È nu teatro antico, sempre apierto. Ce nasce gente ca' senza cuncierto scenne p'è strate e sape recità". Così Eduardo De Filippo, uno dei suoi più straordinari "monumenti".

Un palcoscenico d'arte, dove, aggiunge Luciano De Crescenzo, con la sua amabile, sorridente ironia, "il semaforo rosso non è un divieto, è solo un consiglio".

Giuseppe Daniele, detto Pino, buttò giù a diciott'anni (uscirà quattro anni dopo) Napul'è, un ritratto poetico e suggestivo della sua città, una città unica, bellissima e "difficile", piena di vitalità, di energia pura, e profonde, insanate contraddizioni. Una città "fuori-formato", difficile da incasellare e catalogare. Un gioiello, un piccolo classico, "l'ultima grande canzone napoletana". Così la giudicò, poco prima di morire, Roberto Murolo.

Napule è mille culure 

Napule è mille paure 

Napule è a voce de' criature 

Che saglie chianu chianu 

E tu sai ca' non si sulo

Una canzone che è un meraviglioso, struggente acquerello, che evita le trappole della retorica, le scontate "cartoline", gli abusati cliché e luoghi comuni, sempre in agguato quando si parla della città partenopea. Pochi versi, asciutti e lirici, nostalgici e dolenti, appassionati, disperati, genuini. Poche sapienti, ispiratissime pennellate, colme di viscerale passione e dura, amara denuncia.

Una poetica, quella di Pino Daniele, che privilegia il dialetto, le parole dei vicoli e della gente. Il dialetto, musicale, lirico, "colorato", rispetto a una lingua italiana più "ingessata", ostica, faticosa da musicare. Il dialetto, che consente scarti sillabici, contrazioni verbali, vibrazioni fonetiche, e sa restituire, fragrante e intatta, l'anima e la poesia di un luogo. E che verrà sempre più, nel corso della sua carriera, contaminato con l'italiano e l'inglese, "sposato" a sonorità mediterranee, jazz, rock-blues, funky, fusion, a una calda e intensa musicalità. A dar vita a un impasto poetico e ritmico assolutamente originale e straordinario. Quel meticciato musicale che va sotto il nome di neapolitan sound, con i suoi sentori d'oriente e la vitalità prorompente dell'America "nera". Una musica cosmopolita, un superbo mélange, un rigoglioso meticciato tra cantabile dolcezza melodica e vigorosa sapienza ritmica.

Nei pochi versi della canzone, quella vitalità pullulante, formicolante, che già catturò Goethe, il grande scrittore tedesco quando, il 16 marzo 1786, nel corso del suo "Grand tour", arrivò a Napoli. Dove è invaso dall'entusiasmo e dalla felicità: "Napoli è un paradiso, in cui tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di sé stessi. A me accade lo stesso. Non mi riconosco quasi più, mi sembra di essere un altro uomo. Ieri mi dicevo: O sei stato folle fin qui, o lo sei adesso"

Un turbinio di risate, di voci, di allegria, che cullò anche, inizialmente, Giacomo Leopardi, che vi trascorse gli ultimi anni della sua vita. Che gli inebriava i sensi, e medicò la sua disperazione, il suo dolore, la sua "nera, orrenda, barbara malinconia". Per poi, peggiorando le sue condizioni di salute, tramutarsi in sofferenza e irritazione, a causa delle piazze troppo affollate, della vita che urgeva e premeva da ogni parte e per la derisione che la sua postura, ingobbita, suscitava tra giovani e adulti, "lazzaroni e pulcinelli", che lo apostrofavano "Ranavuottolo". E gli toccavano scaramanticamente la gobba, per ingraziarsi la dea bendata nel gioco del lotto. Ricettacolo, da sempre, di atavica, fatalistica rassegnazione e di mistiche, superstiti speranze. Come i miracoli di San Gennaro.

Anche qui, in queste testimonianze, Napoli luce e ombra, idillio e tormento, bellezza e trasandatezza, allegria e spleen. "Un paradiso abitato da diavoli", come la definiva, riesumando un antico detto e biasimo medievale, Benedetto Croce. Che, abruzzese di nascita, nella città aveva scelto di vivere.

Napule è nu sole amaro 

Napule è mille culure 

(Napule è mille paure)

Ma ascoltiamo Pino Daniele, che racconta il vicolo, nei pressi del monastero di Santa Chiara, in cui visse i suoi primi anni: "Vivevamo in un basso e la stradina, piccola e stretta di notte, quasi si allargava di giorno, si estendeva, per la vita vivace che prendeva forma sui basoli di pietra vulcanica: là c'era la bottega del salumiere, da dove usciva un odore sensuale di buattone, conserva di pomodoro venduta sfusa; nel portone, il falegname, don Vittorio 'o casciaro (costruttore di casse), segava e martellava tutto il giorno; un po' più in qua, la casa più temuta, quella del prestasoldi, l'usuraio del quartiere".

Primo di sei fratelli di una povera famiglia di portuali, Pino venne poi cresciuto da due ziette, due attempate zitelle, in un appartamento signorile, a pochi passi dai suoi. Tanti anni dopo l'uscita della canzone, confesserà amaramente: "Mi sento frustrato a vedere che è ancora così, che non è cambiato niente. (...) Sono solo un musicista, un cantante, non ho soluzioni in tasca, ma non riesco a tacere di fronte a tanto scempio: i cumuli di rifiuti che soffocano una terra bellissima; giornali e Tg di tutto il mondo che ci riempiono di ulteriore monnezza, meritata e immeritata; il balletto di responsabilità di chi governa; l'opposizione che specula soffiando sul fuoco; il malaffare che ne approfitta; il Nord che offende il Sud "cornuto e mazziato". (...) In un altro pezzo cantavo: E il mare il mare, il mare sta sempre llà, tutto spuorco, chino 'e munnezza e nisciuno 'o vo' guarda'. Quella ambientalista è forse l'unica causa che ho sposato fino in fondo".

Napule è na' carta sporca 

E nisciuno se ne importa 

E ognuno aspetta a' sciorta

In un'altra ballata di quel periodo, Ce sta chi ce penza, Pino sputa ancora parole di dolore per una città bellissima e "perduta", fastosa e fatiscente, deturpata dal degrado e dall'incuria.

Ma che puzza dinto a 'stu vico 

Comme fa' 'a gente a campà 

Cu 'sta puzza sotto 'o naso 

Ca nun se po'cchiù suppurtà.

Una lamentazione secolare. Scriveva, alla fine dell'Ottocento, Matilde Serao, l'autrice del Ventre di Napoli, scrittrice e giornalista ,interprete partecipe delle miserie e delle speranze del suo popolo. Una durissima denuncia, un'impietosa analisi: "Tutto il letame delle bestie e delle persone e delle case, tutto è qui e nessuno ce lo toglie".

Negli ultimi versi di Napul'è, c'è tuttavia la rivendicazione orgogliosa di una dignità e esclusività di giudizio. Per una città-mondo, una città-universo, che gli altri, quelli che vengono da fuori, non possono capire fino in fondo. Forse soltanto detestare o amare visceralmente.

Napule è tutto nu suonno 

E a' sape tutto o' munno 

Ma nun sanno a' verità

Il brano, arrangiato da Antonio Sinagra, e oggetto di numerose, prestigiose cover (Mina, Gino Paoli, Pavarotti...) si apre sulle note dolci e struggenti di un oboe, mentre un piano tesse, in sottofondo, un incantato tappeto di limpidi accordi. Poi un mandolino e gli armonici arabeschi della duttile chitarra di Pino lasciano spazio alla sua voce, esile, sottile, dolce, graffiante, e alla poesia dei versi. A una canzone che ci culla dolcemente, con la sua gradevole, indimenticabile melodia. Come in un sogno smemorante, sotteso da un'ombra di malinconia e da un segreto, sottile dolore. Una canzone del '77, che apre l'album Terra mia, uno straordinario debutto. Un album che ha lasciato una traccia profonda e luminosa nella storia della musica italiana.

"Le mie ambizioni erano quelle di scrivere canzoni come Luigi Tenco e suonare con i grandi chitarristi, a metà tra futuro e tradizione".

Napul'è appare, contemporaneamente, sul lato B di un 45 giri che, sulla facciata principale, propone un altro indimenticabile ritratto della città. Quello sorridente, divertito, ma anche pungente e sarcastico, di 'Na tazzulella 'e cafè. Costruito su una melodia orecchiabile e accattivante; piuttosto "facile" e scontata, tuttavia.

Na' tazzulella e' cafè e mai niente cè fanno sapè 

Nui cè puzzammo e famme, o sanno tutte quante 

E invece e c'aiutà c'abboffano e' cafè 

Na' tazzulella e' cafè ca sigaretta a coppa pe nun verè 

Che stanno chine e sbaglie, fanno sulo mbruoglie 

S'allisciano se vattono se pigliano o' cafè

Quel caffè che nella canzone è quasi un narcotico, un sedativo. E che a Napoli è un rito sacro, inimitabile e irrinunciabile. Il caffè che, come diceva De Filippo (a cui in Questi fantasmi dedicherà addirittura un monologo), pure "'O nervuso, nervuso comm'è ogne tanto s''o vva a piglià".

Napoli, una città millenaria, brulicante di vita, un'enciclopedia vivente dell'umano. Un umano concitato e recitato. Sempre presa tra un'eterna duplicità: mito e storia, "orrore" e stupore, emergenza e indulgenza. Napoli città stupenda e maledetta. E "letteraria".

"Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, (...) tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, (...) tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva (...) una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composto di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione".

Così Anna Maria Ortese, una delle più grandi firme del '900, la "zingara sognante" (Pietro Citati), l'autrice de Il mare non bagna Napoli. Un capolavoro che, stranamente, fa fatica a entrare nel canone dei classici. Una scrittura "febbrile e allucinata", lucida e sfuggente, intensa e dolcissima, intrisa del sangue degli ultimi, dei vinti, dei senza voce. Che si sofferma a descrivere il "cupo incanto" e la morte morale di una città lacera e sfinita, uscita a pezzi dalla Seconda Guerra Mondiale. Il suo abisso di innocente abiezione, la sua tenebra rischiarata da una natura bella e impassibile. E ne distrugge, con forza abrasiva, l'immagine oleografica da cartolina.

"Uscì sul balcone. Quant'aria, quanto azzurro! Le case, come coperte da un velo celeste, e giù il vicolo, come un pozzo, con tante formiche che andavano e venivano... come i suoi parenti... Che facevano? Dove andavano? Uscivano e rientravano nei buchi, portando grosse briciole di pane, questo facevano, avevano fatto ieri, avrebbero fatto domani, sempre ... sempre... Tanti buchi, tante formiche. E intorno, quasi invisibile nella gran luce, il mondo fatto da Dio, col vento, il sole, e laggiù il mare pulito, grande...

Una Napoli specchio della sua nevrosi metafisica, del suo orrore della realtà, della sua dolente ossessione del tempo che, nella sua corsa cieca, tutto corrode e divora. Il mare non bagna Napoli, una raccolta di racconti (indimenticabile, di una dolorosa bellezza il primo, Un paio d'occhiali), apparsa nel '53. Un libro che fu però accusato di essere "contro Napoli", e che costò alla Ortese l'addio, nello stesso anno, a una città che non rivedrà più.

Napoli è anche il teatro di una straordinaria polifonia di voci, di storie, di personaggi, nel memorabile romanzo ("Premio Strega" 1961) Ferito a morte, di Raffaele La Capria. Un racconto vibrante, sospeso dentro un tempo dilatato (e il suo malinconico, irreversibile declinare), inscritto nel breve respiro di un mattino, tra flusso di coscienza, ricordo, flashback, sogno. Con il giovane protagonista, Massimo (alter ego dell'autore), che si prepara a partire, a lasciare la città ed è già assalito dalla nostalgia, dalla dolcezza struggente dell'irrecuperabile. E immagina i suoi giorni, il suo andare "domani nel rispettabile squallore di strade sconosciute, in una città senza Vesuvio e senza estati, dove i palazzi non finiscono sotto il mare (...) e una bella giornata non vince la Storia -col tempo regolato dall'orologio e dalla busta paga".

Ma poi, tornando (da Roma), è preda dell'amarezza e della disillusione per una città amata di un amore freddo e contrastato, "che ti ferisce a morte o t'addormenta, o tutt'e due le cose insieme".

La Napoli degli anni '50, una città che non ha saputo cogliere la grande occasione del dopoguerra, per risorgere, riscattarsi. E vive un'irrimediabile decadenza. Una Napoli che è insieme, nelle pagine di La Capria, ha sottolineato Claudio Magris, "mitica e reale". Come è anche, da sempre, nella realtà. Che si identifica con la vitalità e la fascinazione del mare, con la "gioia immensa, lontana" di "un cielo intatto, inalterabile". Con la luce splendida di un paesaggio sventrato e scempiato, tuttavia, dalla speculazione edilizia. E con i miti di una giovinezza troppo presto, malinconicamente perduta. Napule è nu sole amaro.

"Le due Napoli, una la montatura e l'altra quella vera. La Napoli bagnata dal mare e quella che il mare non bagna".