E' tutta musica leggera

Tricarico versus Vasco. Vite poco tranquille

Uno dei brani più belli di un disco bellissimo, magico, ispirato: Giglio, uscito nel 2008. Un piccolo capolavoro, uno scrigno di purezza e semplicità. Testi stralunati e profondi, spensierati e introspettivi, ironici, ingenui, visionari, che parlano di gioia, amore e libertà, che sembrano partoriti dalla fantasia fertile, sbrigliata, "colorata" di un bambino. Sonorità e melodie che ricordano, a volte, Lucio Battisti, Rino Gaetano, Adriano Celentano. E che si giovano della collaborazione e del "tocco" del grande percussionista jazz indiano Trilok Gurtu.

Francesco Tricarico, milanese, diplomato in flauto traverso, un animo tenero e problematico, perso nel suo mondo fiabesco e incantato, naif, "felliniano", di draghi verdolini, fate e neve blu. A inseguire l'amore, che è una ranocchietta verde. Un mondo di istintiva, tenera poesia, e bambinesca follia. Di sogni enigmatici, a volte vaneggianti, che danno fiato a quella "poetica della filastrocca" che segnò, all'alba del 2000, il suo clamoroso esordio sulla scena musicale italiana. Con un brano dolceamaro, sincero, puro, "innocente", terribile ed emozionante: Io sono Francesco. E quel ritornello Puttana puttana, puttana la maestra, che tutti ci trovammo a canticchiare. Una canzone che lo fece balzare, improvvisamente, in testa alle classifiche, gli regalò un disco di platino e i complimenti di Francesco De Gregori, il Principe della canzone d'autore italiana.

Raccontava la storia tragica di un bambino (egli stesso, come chiarirà poi) che aveva perso, all'età di tre anni, il papà aviatore. E della maestra (puttana!) che lo obbligava a fare un tema su di lui.

Buongiorno buongiorno io sono Francesco

io ero un bambino che rideva sempre

ma un giorno la maestra dice oggi c'è tema

oggi fate il tema, il tema sul papà

io penso è uno scherzo sorrido e mi alzo

le vado vicino ero contento

le dico non ricordo mio padre è morto presto

avevo solo tre anni non ricordo non ricordo

lei sa cosa mi dice neanche mi guardava

beveva il cappuccino non so con chi parlava

dice "qualche cosa qualcosa ti avran detto

ora vai a posto e lo fai come tutti gli altri"

puttana puttana, puttana la maestra

puttana puttana, puttana la maestra

io sono andato a posto ricordo il foglio bianco

bianco come un vuoto per vent'anni nel cervello

e poi ho pianto non so per quanto ho pianto

su quel foglio bianco io non so per quanto ho pianto

brilla brilla la scintilla brilla in fondo al mare

venite bambini venite bambine e non lasciatela annegare

prendetele la mano e portatela via lontano

e datele i baci e datele carezze e datele tutte le energie...

Passano otto anni; passano, nell'indifferenza, due album piuttosto dimenticabili. E poi rieccolo, Francesco, sul palco di Sanremo, nel 2008. Come un alieno, un verdolino extraterrestre, con la sua figura filiforme, allampanata, le movenze impacciate da "imbranato", e quella strana, immobile postura. Con una cesta di capelli che gli fanno curiosamente corona e che le luci della ribalta fanno risaltare come un'aureola. Con quel suo mutismo sicuramente poco telegenico e "troppo rumoroso", quel non proferire parola o rispondere a monosillabi alle rituali domande del Pippo nazionale. Solo uno "stronzo" rivolto in diretta, con nonchalance, a Piero Chiambretti, che lo aveva preso in giro. E sempre quello sguardo lievemente allucinato, ossessivamente cupo e inquietante, quell'espressione scurita e stranita, indecifrabile e insondabile. Quella sua presenza, insomma, "sghemba", dissonante, "diversa", quasi un personaggio alieno, da cartoon.

E, con una straordinaria intensità da pelle d'oca, attacca a cantare, senza saper cantare. Grida, la voce stonata, aspra e sgraziata, quello che è forse il sogno, o almeno il desiderio segreto di tutti: Voglio una vita tranquilla...

Quasi un inno per questi nostri anni sincopati, forsennati, inghiottiti come un treno in corsa da una galleria. Per le nostre vite concitate, esagitate, saturate dalla fretta e dall'impazienza. Esauste, colme di vuoto, di vacua banalità e cinica futilità, risucchiate in un vortice cieco, nel furore e nel malessere che abitano il mondo.

Francesco canta il suo sogno, il sogno di una vita che è stata sicuramente poco tranquilla, segnata da quel trauma infantile e da infelicità assortite. Con quell'incipit sussurrato, che mette i brividi:

Ho sempre pensato

Quando avrò questo sarò saziato

Ma poi avevo questo, ed era lo stesso

Ho sempre pensato

Troverò il mare e sarò bagnato

Il mare ho trovato, ma nulla è cambiato... nulla

Che cosa è che io aspetto

Io... voglio una vita tranquilla

Perché è da quando sono nato

Che son spericolato

(...)

Ho sempre pensato

Quando avrò il cielo sarò stellato

Divenni una stella, ma ero lo stesso

Sempre lo stesso

Ho sempre pensato

Troverò lei e sarò rinato

Lei ho trovato, qualcosa è cambiato

Qualcosa è cambiato (qualcosa)

L'ultima illusione non è svanita

Io libero per sempre...

La libertà come una condizione privilegiata di pienezza e compiutezza esistenziale, un "infantile", creaturale, francescano sogno di leggerezza, cui abbandonarsi con tutta l'anima. Ad esso Francesco dà fiato, respiro e ali in Libero, brano bellissimo, tirato, struggente, che chiude l'album.

(...) Vorrei essere libero

Di non esser libero

(...)

Libero

Come un fiore

Libero libero libero

Libero

Come il sole

Libero libero libero

Libero

Come un uccellino

Libero libero libero

Libero

Come il vento libero

Libero libero libero

Libero

Come la pioggia

Libero libero libero

Libero

Come l'amore

Liberto libero libero

Libero

Come un bimbo

Libero libero libero

Libero

Come un uomo libero...

Un disarmante candore (proprio come un giglio) che incanta ed emoziona. Un brano che a Sanremo non riesce a classificarsi tra i primi dieci, ma che vince il "Premio Mia Martini" della critica. Versi di assoluta semplicità, e insieme di lancinante intensità, che ripudiano ogni ermetismo e tecnicismo. Una leggerezza cantabile, che si fa riflessione, introspezione, scandaglio interiore. Una melodia gradevole, accattivante, che illumina la ballata, e si spalanca su un efficace, incisivo ritornello. A dar fiato al nostro bisogno urgente di serenità, di mettere dimora in una vita più sobria e raccolta, di sostare in giornate più scarne, pacificate, animate di senso.

"(...) parlo dell'insoddisfazione che si ha davanti alle cose che si raggiungono. Si cerca sempre qualcosa, poi si raggiunge l'obiettivo e ci si accorge che non è cambiato nulla. Questo succede quando l'obiettivo è una cosa esterna a noi stessi. Penso invece che la sfida più grossa sia quella di cercare qualcosa che c'è in sé ed accorgersi della voglia di tranquillità, della voglia di restare in equilibrio e di passare in mezzo alle cose belle e alle cose brutte, meravigliandosi di tutto e niente".

"La felicità non si ha nei beni esteriori, l'anima è la dimora della nostra sorte", ammoniva già Democrito, nella Grecia del V secolo a.C. E, metteva in guardia Leopardi, nello Zibaldone, essa è una ricerca infinita, un sogno irrealizzabile.

"(...) la felicità è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perché la felicità assoluta è indefinita e non ha limiti."

Proust, nella Recherche (All'ombra delle fanciulle in fiore), a ribadire il concetto; facendo intervenire, curiosamente, "l'astuzia diabolica" di una natura nemica (leopardianamente "matrigna"?): "La felicità non può attuarsi mai. Anche se le circostanze vengono superate, la natura trasporta la lotta dall'esterno all'interno e, a poco a poco, muta il nostro cuore abbastanza perché desideri una cosa diversa da ciò che gli vien dato di possedere. E se la vicenda è stata così rapida che il nostro cuore non ha avuto il tempo di mutare, non per questo la natura dispera di vincerci, in una maniera più tardiva, è vero, più sottile, ma altrettanto efficace. Allora, all'ultimo istante, il possesso della felicità ci vien tolto, o piuttosto, a questo stesso possesso la natura, per un'astuzia diabolica, dà incarico di distruggere la felicità. Avendo fallito in tutto quanto rientra nel campo dei fatti della vita, la natura crea un'estrema impossibilità, l'impossibilità psicologica della felicità. Il fenomeno della felicità non s'avvera o dà luogo alle reazioni più amare."

Felicità raggiunta, si cammina per te sul fil di lama.

Agli occhi sei barlume che vacilla,

al piede, teso ghiaccio che s'incrina;

e dunque non ti tocchi chi più t'ama

Così Eugenio Montale, in quel monumento di poesia che è Ossi di seppia.

La felicità è dunque una condizione di grazia, di pienezza esistenziale, fragile e precaria, labile, volatile. E' davvero camminare sul sottile crinale dell'anima, sempre lì lì per cadere, franare, precipitare. Una folgorazione, un'epifania, un dono improvviso, sempre sul punto di dileguare, di svanire, di perdersi. Come, negli ultimi versi della lirica, il pallone che fugge tra le case, e sprofonda il bambino in un pianto che nulla paga, un pianto irreparabile e inconsolabile.

"La felicità esiste, ne ho sentito parlare", scriveva Gesualdo Bufalino nel Malpensante, quel suo zibaldone divertito e sulfureo, demitizzante e dissacrante. Bufalino, con quel suo tonificante, corroborante pessimismo, impregnato d'ironia. Nella sua idea di una vita ingorgata nel "buco grigio del tempo", impastata di luce e lutto. Di improvvise, ingannevoli illuminazioni e della minacciosa, cupa ombra che avanza, la verità della morte," il più cocciuto dei fatti".

Meglio, dunque, volare più basso. Puntare, suggerisce Francesco, alla tranquillità e alla serenità. Ad una consapevole, intensa normalità. Che risiede, dunque, non tanto nel possesso, ma in una dimensione interiore di armonia, di autodominio. E in un occhio nuovo, vergine, meravigliato, spalancato sulle cose. Per evitare che la nostra vita, e l'anima consumistica che ormai ci abita, trascinate e "ingabbiate" dalla dissoluta, frenetica voracità dei desideri, delle passioni, dei bisogni indotti e inautentici, si risolva, come scriveva Platone, con una straordinaria metafora, nel Gorgia (e come, fondamentalmente, ci dice Tricarico), in una "botte forata".

Nella canzone, il sogno di una vita che riesca a medicare i traumi dell'infanzia, le ferite ancora aperte e i dolori del vivere.

Io... voglio una vita serena

Perché è da quando sono nato che è

Disperata, spericolata

Però libera, verde sconfinata

In un altro brano del disco, alcuni versi piuttosto enigmatici squarciano, con un breve lampo di luce sinistra, un passato sicuramente da archiviare e seppellire:

(...)

Poi ricordo ho spaccato un vetro

Mi hanno preso, mi han legato

Mi hanno fatto un'iniezione

(...)

Io...io...credevo che...che...tutti

Fossero come me...invece...

(Fili di tutti i colori)

Quante prove nella vita

che bisogna sopportare

quante prove nella vita

che bisogna superare...

Così cantava (nello stesso album), in Cosa vuoi adesso?

Francesco canta la sua aspirazione, il suo desiderio di una vita tranquilla, su quello stesso palco dell'Ariston dove, nel 1983, esattamente un quarto di secolo prima, era salito Vasco Rossi.

Jeans bianchi, felpa blu, giubbetto cachi, mani in tasca, con l'aria di essere appena uscito dal bar, a Zocca, il suo piccolo borgo montano, nel modenese. Lo sguardo spaesato, tra sballo e perdizione, di chi è capitato lì quasi per caso. E biascicò, il Blasco, come uno sgualcito, redivivo Rimbaud, perso a inseguire un sogno, il Rimbaud di una nebbiosa, grigia provincia, il suo rabbioso e dolente rifiuto di una vita normale, di una vita tranquilla. La sua gridata ribellione all'opaca piattezza del quotidiano. Quella ballata epocale, splenetica, "maledetta", che è Vita spericolata.

Voglio una vita maleducata

Di quelle vite fatte, fatte così

Voglio una vita che se ne frega

Che se ne frega di tutto sì

Voglio una vita che non è mai tardi

Di quelle che non dormono mai

Voglio una vita di quelle che non si sa mai

E poi ci troveremo come le stars

A bere del whisky al Roxy bar

O forse non c'incontreremo mai

Ognuno a rincorrere i suoi guai

Ognuno col suo viaggio

Ognuno diverso

E ognuno in fondo perso

Dentro i fatti suoi

(nel testo originale, poi "purgato" dalla censura, un assai poco sanremese dentro i cazzi suoi)

Voglio una vita spericolata

Voglio una vita come quelle dei film

Voglio una vita esagerata

Voglio una vita come Steve McQueen

Voglio una vita che non è mai tardi

Di quelle che non dormi mai

Voglio una vita, la voglio piena di guai

E poi ci troveremo come le stars

(...)

Voglio una vita che non è mai tardi

Di quelle che non dormi mai

Voglio una vita

Vedrai che vita vedrai

Una canzone manifesto e confessione, romantica e disillusa, disperata e malinconica. Un brano in qualche modo profetico, per le disavventure giudiziarie in cui, da lì in avanti, incapperà il suo autore.

"Finalmente ho scritto la canzone della mia vita, mi dicevo, adesso sono a posto, posso andare. Era il periodo in cui esageravo con tutto, in modo disperato, mi addormentavo in macchina, facevo incidenti. Pensavo che, se anche fossi morto in quel momento lì, sarebbe stato bello per il mito. Poi mi sono disintossicato, è stato durissimo."

Al festival Vasco arrivò penultimo, davanti a Pupo. Leggendaria la sua esibizione, con quella sua voce arrochita dall'alcool e dalle sigarette, e quell'espressione stralunata, noncurante, svogliata e approssimativa, da "strafatto". Alla fine dell'esibizione, rischia di inciampare, e abbandona provocatoriamente il palco prima della fine della canzone, con il ritornello che continuerà così, tranquillamente ad andare, in playback. Voltando le spalle a un pubblico esterrefatto, con gesti che lo mandavano, metaforicamente, a cagare. E mandavano al diavolo quella televisiva fiera italiota dei buoni sentimenti, quello spettacolo stantio e ammuffito per famigliole raccolte religiosamente nel tinello. Il tinello marron (direbbe Paolo Conte) di una spenta, prosaica, morigerata vita borghese.

Nella ballata (musica di Tullio Ferro) una citazione che è anche un omaggio al Tenco immortale di Vedrai vedrai: Voglio una vita / vedrai che vita vedrai.

Un richiamo, anche, a Fred Buscaglione, il re dello swing, un'icona degli anni '50. Fred dal wiskhey facile,che ironizza sul sogno americano. Con quella sua voce roca, i baffetti alla Clark Gable, l'espressione da duro, da boss, da "vissuto" ,il sorriso ladro ,mascalzone, e la sigaretta eternamente pendula all'angolo della bocca. Buscaglione che, insieme a De André e Jannacci, è per Vasco, da sempre, quasi un maestro. Il Roxy bar di Vita spericolata è evocato, infatti, in uno dei suoi successi più celebri, Che notte. Era il bar dove l'aspettava quella bionda, l'amichetta tutte curve del capoccia, che andava proprio lì a fare il pieno. Che cotte, ragazzi / che notte quella notte.

Ma aleggia, soprattutto, sulla ballata di Vasco, il mito di Steve McQueen, icona di libertà e spregiudicatezza. L'attore de La grande fuga che, sul set, non voleva controfigure. Con le sue moto che correvano più veloci del vento e quell'alone di leggenda, tra trasgressione, temerarietà, rischio e motori. Un alone in cui si inscrive anche il tragico destino di Buscaglione, che trovò la morte all'apice del successo, a 38 anni, in un terribile incidente stradale, mentre tornava, una mattina piovosa, in albergo, dopo un concerto. La sua Ford Thunderbird, un'auto di nicchia, una luxory card decappottabile, dallo stravagante color lilla, si schiantò contro un camion. Sarà invece il cancro a portarsi via, a 50 anni, l'attore americano.

Racconta Vasco: "Un pomeriggio piovigginoso, mentre ero in tournée in Sardegna, entrai in un campo sportivo desolantemente vuoto. Ero un po' triste. All'improvviso mi misi a pensare a che cazzo di vita volevo. Volevo dire qualcosa di importante, così ho affrontato il tema che in quel periodo affliggeva tutti: la paura di una vita piatta, tranquilla, priva di emozioni. Scrissi il testo di botto, dentro un'auto davanti a quel campo sportivo. Aggiungo che quando parlavo del Roxy Bar, pensavo a un'altra vita".

Ha scritto Edmondo Berselli: "Nelle notti di Vasco si possono immaginare macchine potenti, semafori bruciati con un ghigno di complicità verso la ragazza sulla poltroncina accanto, corse con l'autoradio al massimo del volume su tangenziali semivuote verso le cinque di mattina". "Si può immaginare facilmente lo schema: birra tracannata a bidoni, altro che lattine, pacchetti su pacchetti di Lucky Strike, e poi tutto il resto, come è noto".

Ma poi arriverà, anche per lui, "l'età della ragione", il momento di "mettere la testa a posto". Non si può fare quello che si vuole, / non si può spingere solo l'acceleratore, canterà nel Mondo che vorrei, nel 2008.

"Ed è così", scrive Leonardo Colombati," che un quarto di secolo dopo quell'inno al maledettismo, il manifesto del rock italiano, il quasi sessantenne "budellone" -come lo definì il corregionario Berselli-ha tre figli grandi, vive con la stessa donna da quattro lustri, mangia regolarmente, a una certa ora-se non è in tournèe-va a dormire (...) Anno dopo anno è sempre più grasso, sempre più pelato, sempre più brutto, con l'anima che si arrende alla malinconia ;eppure è l'unico che ancora vende pacchi di dischi e riempie gli stadi di un pubblico incredibilmente intergenerazionale (si va dai quattordici ai sessant'anni)".

Una canzone, Vita spericolata, che inaspettatamente, spiazzando tutti, con un autentico coup the theatre, anche Francesco De Gregori interpretò, nel 1992, in un concerto a Torino. E poi inserì nell'album live Il bandito e il campione.

"Quella canzone continua a essere bellissima: quando uscì comprai il 45 giri e l'ascoltai fino a consumarlo. Un po' come succedeva da ragazzo con i dischi di De Andrè. (...) è un collante straordinario di tante generazioni e di tanti stili musicali. E' una canzone trasversale, che ci riguarda tutti (...) non riguarda solo la generazione degli spericolati in senso vascorossiano. Che la spericolatezza, il rischio, il pericolo, la paura, il coraggio, il perdersi, il distruggersi, tutte cose che puoi trovare in quella canzone, sono dentro la vita di tutti, anche di un impiegato al catasto. Non è che io mi sentissi un impiegato al catasto rispetto al tipo di vita alla quale immaginavo si riferisse Vasco ma certo era sorprendente che quella canzone me la rigirassi in bocca io. Ricordo lo stupore del pubblico quando attaccavo con il primo verso, come a significare. "Ma che c'entra lui con la vita spericolata? Non è un bravo ragazzo?" E ancora, su Vasco: "E' figlio della sua epoca, i primi anni Ottanta, e pur essendo un uomo di sinistra per comportamenti e dichiarazioni, i suoi testi esprimono suggestioni individualiste, superomiste, futuriste; categorie considerate patrimonio della cultura di destra." Per concludere con quasi un manifesto di poetica: "E' una riprova che le canzoni non devono passare attraverso i filtri della politica."

La ballata di Tricarico richiama, echeggia, inevitabilmente, quel mitico brano del Blasco, che ha lasciato un segno profondo nella musica italiana. Un'icona immortale, una delle canzoni più belle e amate di sempre. L'inno di una giovinezza ribelle e perdente, "bella e dannata". Di una generazione di sconvolti, che non han più santi né eroi.

Siamo solo noi

che andiamo a letto la mattina presto

e ci svegliamo con il mal di testa

(...)

che non abbiamo più rispetto per niente

neanche per la mente

Siamo solo noi

quelli che poi muoiono presto

quelli che però è lo stesso

Così cantava Vasco qualche anno prima, divertendosi a indignare i moralisti e a spaventare i benpensanti.

Non c'è molto da credere a Francesco quando afferma, relativamente a un eventuale, quasi inevitabile richiamo a Vita spericolata: "Ad essere sinceri non ci ho nemmeno pensato".

"Non c'è nessun rapporto con Vita spericolata di Vasco Rossi", ha aggiunto. "Salvo il fatto che una vita è tranquilla e l'altra spericolata, che i personaggi sono entrambi border e che sono state presentate dal palco del Festival. (...) E' una cosa mia, una mia visione della spericolatezza, nel senso che è legata ad accogliere delle emozioni e a viverle intensamente ed esageratamente. Abbandonandosi un po' troppo alle cose che accadono. All'interno di una vita non tranquilla e cercando una speranza all'interno di una vita che è già spericolata di suo. Quando sei giovane magari non decidi tu, nella prima infanzia non decidi tu. Sono cose legate alla famiglia, senza andare nello specifico".

Ma tant'è. Potremmo pure credergli. Fosse anche, questo non avrebbe nessuna importanza." Non aggiungerebbe una goccia di pioggia al temporale", per dirla col grande poeta francese Rene 'Char. Non toglierebbe, nè aggiungerebbe una virgola, all'originalità, all'intensità e alla forza di una canzone, Vita tranquilla, che, come quella (mutatis mutandis) "deragliata" e spericolata del rocker di Zocca, arriva dritta al cuore. Tocca e scuote, emoziona.

Scorre la vita infinita

Cadono i petali delle rose

Siamo solo piccole particelle

Che compaiono e scompaiono e riappaiono...

(Oroscopo)

Vita tranquilla...Vita spericolata. Vita da vivere, da sognare, da inventare. Nel tempo metà frutteto, metà deserto (ancora Char). La vita, una meravigliosa balconata pencolante sull'abisso.

Cantava il grande Piero Ciampi, poeta maudit della musica italiana, in quella sua tenera e ulcerata ballata, Ha tutte le carte in regola, che è anche uno struggente, impietoso autoritratto, il miserere di chi non ha più illusioni:

La vita è una cosa che prende, porta e spedisce.