50 anni ben portati

Il Manifesto ha compiuto 50 anni. Sul nome, quando nacque come mensile, c'era stato un dibattito fra i fondatori: inizialmente c'era chi lo voleva chiamare Il Principe, sulla scorta dell'opera di Machiavelli, probabilmente una suggestione gramsciana sulla concezione della forma partito; ma prevalse il nome che ricorda la famosa opera di Marx ed Engels del 1848. Una scelta ideologica chiara che doveva dare il senso dell'orientamento marxista quanto al metodo e di una scelta di campo più rigorosa quanto all'impegno politico e sociale. Comunque una rivista di dibattito che fosse utile a chiarire cosa fosse e come dovesse muoversi la galassia della sinistra in un'epoca di tardo capitalismo, di crisi del sistema e non solo nel sistema, di quale ruolo attivo dovessero avere i soggetti sociali e politici in questa dialettica costruttiva. Parole lontane. Problemi risolti perché ormai non più proponibili, ma allora, sull'onda del Sessantotto, problemi più che concreti, almeno agli occhi dei fondatori e dei direttori del mensile: Lucio Magri e da Rossana Rossanda.

La storia della rivista va letta all'interno delle vicende che portarono i suoi esponenti ad essere radiati dal PCI. Altri tempi. Ci si schierava con determinazione. Si lottava anche a costo di perdere cariche, di non fare carriera politica, di perdere il posto di lavoro. Ci si esponeva senza tema di sbagliare, ché tutto faceva parte della dialettica politica che per il gruppo del Manifesto era gramscianamente prassi ed elaborazione teorica; era studio dei fenomeni sociali e culturali alla luce di un marxismo non ortodosso che coniugherà Scuola di Francoforte, Sartre, Mao e Gramsci. C'era un diverso approccio anche alla cronaca dei fatti, letti sempre in prospettiva strutturale di medio e lungo periodo. Il Sessantotto era iniziato e si preparava ad essere lungo in Italia. Studenti contestatori alla ricerca di un nuovo modo di studiare ed impegnarsi socialmente; questione femminile alle porte; operai alle prese con ritmi di lavoro stressanti, stipendi inadeguati, città dai quartieri quasi invivibili: la stagione dei contratti arrivava e con essa quello che è passato alla storia come Autunno caldo. Di lì a non molto, la riforma del diritto di famiglia e la legge sul divorzio, la riforma del sistema manicomiale, lo Statuto dei lavoratori. Ma poi, ci fu anche Piazza Fontana: una strage fascista che mobiliterà molti del mondo progressista ed avrà strascichi anche per il Manifesto, quando alle elezioni candidarono il principale accusato, l'anarchico Pietro Valpreda.

Il mondo intero era in fermento: in America era già iniziato da cinque anni e c'era ancora la guerra del Vietnam; la Francia aveva avuto una fiammata rivoluzionaria nel maggio del '68; Praga aveva resistito all'invasione sovietica, a sostegno del governo Dubceck, ma la Primavera cecoslovacca fu travolta e il PCI, che aveva condannato in un primo momento, ora sembrava subire il nuovo ordine senza incalzare la dose. "Praga è sola" titolò la rivista Il Manifesto e per il gruppo fu probabilmente la goccia che fece traboccare definitivamente il vaso. Di lì a poco la radiazione, provvedimento infamante per chi credeva nelle ragioni del proprio partito e si trovava improvvisamente non solo fuori dal proprio partito, ma emarginato anche dalla base dello stesso. Ma la rivista resse e dopo il primo numero del giugno 1969 con una tiratura di 75.000 copie, mantenne consensi, si allargò a nuovi impegni. Continuò a pubblicare e riuscì ad essere collante di giovani, intellettuali, sindacalisti. Era già una voce della sinistra critica e nel giro di pochi anni attorno ai vari redattori (Pintor, Natoli, Parlato, Castellina, Menapace, Zandegiacomi, Rago) si formarono gruppi che un po' in tutta Italia si riconoscevano nelle idee espresse dalla rivista. Ad un certo momento il gruppo dovette affrontare il problema di un salto politico che prevedeva anche la partecipazione alle elezioni e quindi anche di arrischiarsi nel progetto di trasformare la testata mensile in un quotidiano, strumento più agile, più diretto anche se non avrebbe abbandonato il dibattito teorico interno alle sinistre e al mondo cattolico. 

Il giornale esce il 28 aprile 1971 e pur dovendo affrontare problemi diversi, mantiene alcune caratteristiche della rivista: il nome innanzitutto con l'orgogliosa specifica di quotidiano comunista, ma poi il lavoro collettivo come strumento e al contempo fine politico, come vero laboratorio. Gli argomenti sotto la pressione degli eventi di cambiamento e di crisi (si pensi solo alla crisi petrolifera del 1973) sono la politica, i partiti, il mondo sindacale, la questione cattolica, ma ancora la questione cinese, i marxismi. E con gli anni tutto il resto di quegli anni che non furono solo di piombo. Riandare a quelle pagine significa riconsiderare la storia di un paese con i suoi scossoni, anche tremendi come il terrorismo d'ogni matrice; il passaggio progressivo ad un sistema economico post fordista; in politica, la proposta berlingueriana di un Compromesso storico fra le culture politiche fondamentali della Repubblica (cattolici, comunisti, socialisti, laici). E poi il caso Moro, le parole di Rossanda sull'album di famiglia del comunismo italiano e tanto altro ancora.

Il Manifesto così negli anni, fedele in parte all'originaria impostazione della rivista, ha saputo farsi vero quotidiano e al contempo voce discorde nel panorama giornalistico italiano e nella stessa sinistra. Anche come quotidiano esso ha sempre guardato ad un Marxismo critico, laico, non dogmatico, ed ha cercato, non so quanto con successo, di legare l'analisi dei fatti ad una teoria che a sua volta fosse reinterpretata alla luce dei fatti stessi. Tanti errori di valutazione forse, ma tanta energia, voglia di cambiamento e di intelligenza delle cose, di politica in pratica, di cultura del fare e del dire.

Il quotidiano ha vissuto in questi cinquant'anni vicissitudini d'ogni genere, a cominciare dalle difficoltà economiche per passare attraverso le ripercussioni politiche sulla sua direzione e sulla sua impostazione editoriale. Mai stato giornale di partito in senso stretto, anche se ancora oggi qualche cretino di turno lo definisce tale per il suo definirsi apertamente quotidiano comunista. Per un periodo è stato il luogo di dibattito del PDUP, ma questo è avvenuto sostanzialmente come per le altrettante questioni che sorgevano all'interno di tutta la sinistra comunista e socialista, con un occhio sempre attento alle esperienze altre delle formazioni politiche extraparlamentari (Lotta continua, Avanguardia Operaia).

Il Manifesto è stato laboratorio di idee per decenni, oggi più spostato sull'informazione, forse addolcito, un giornale che però cerca ancora di leggere l'attualità in prospettiva. È stata fucina di molti giornalisti poi affermatisi su altre testate, anche televisive. Ha sempre avuto un occhio di particolare attenzione per la questione femminile, e si pensi al ruolo che al suo interno hanno avuto straordinarie donne come la Rossanda (la ragazza del secolo scorso) o la Castellina.

Oggi se ne possono festeggiare i 50 anni. Ben portati a dire il vero, anche se rimane il rimpianto per l'esaurirsi ormai definitivo del primo gruppo politico che diede vita alla rivista e poi al quotidiano. Se ne sono andati Pintor, Natoli, Rossanda, Parlato ed tanti altri obiettivamente apprezzati anche dagli avversari e dagli avversatori. Rimane anche il rimpianto per gli aspetti migliori (ce ne sono stati anche di brutti) degli anni del Manifesto, soprattutto quelli definiti con termine ben poco scientifico Anni di piombo, in cui il quotidiano sapeva immergersi nella realtà sociale e politica italiane, sapeva valutare la culturalità dell'impegno di cronaca e di analisi, fuori dagli schemi, sempre un po' all'opposizione, a volte in modo intellettualistico, ma sempre appassionato e con una scrittura dallo stile inconfondibile e raffinato che è andata sparendo dalla carta stampata, ma soprattutto definitivamente distrutta dallo strapotere dei nuovi media. Tutto è cambiato, ma il quotidiano tiene duro, ha questa ambizione e forse presunzione, che sono però anche le caratteristiche di chi voglia ancora credere in qualcosa di diverso, non appiattito su immagini comuni falsamente anti ideologiche. E poi ... basta guardare alle copertine del giornale, una volta risolte efficacemente con un semplice titolo, quando non pubblicava immagini, ora composte da una semplice frase con foto che da sole lanciano, spesso ironicamente ma senza volgarità, un messaggio. Saper comporre una prima pagina è questione di mestiere, saperlo fare come questo cinquantenne è arte.

Sono, quelli del Manifesto, 50 anni ben portati che sono anche il risultato di un lavoro originariamente collettivo.