Papisti e babbisti

18.03.2024

Domani è la festa del papà. Auguri a tutti i papà. Anzi, a tutti i babbi, perché al mio se lo chiamavo "papà" neanche si voltava. E anche per mio figlio è stato così. Non è una questione frivola come sembra. Di mamma ce n'è una sola anche dal punto di vista lessicale: si chiama così da Trento a Trapani, con piccole variazioni (quella dei cori alpini è la mama, quella delle commedie di Eduardo è mammà). Il padre, invece, è sempre un po' incerto. Perché non esiste solo la dicotomia babbo-papà, dato che in alcune zone del meridione si usa (o si usava prima del dilagare dell'italiano televisivo) il più raro tata. Qualche mio coetaneo ricorderà il racconto di Cuore di De Amicis intitolato L'infermiere di Tata, la storia strappalacrime del ragazzino napoletano che va in cerca di suo padre in tutti gli ospedali. Io pensavo che tata fosse femminile e mi chiedevo dove fosse finita questa tata, visto che i personaggi del racconto erano tutti maschi.

Nell'Ottocento, quando uniformare la lingua era importante tanto quanto unificare l'Italia, la diatriba su come chiamare il padre era scottante, proprio perché è una delle prime parole che imparano i bambini, e tutto quel che arriva in bocca a loro doveva essere sano, pulito e non adulterato. Per questo i puristi, per i quali l'italiano più perfetto era il toscano fiorentino (quello parlato dal popolo, non quello dei signori, inquinato dai contatti con lo straniero), sconsigliavano caldamente papà, considerato uno sgradevole francesismo preferito dalla borghesia sempre pronta a scopiazzare i transalpini per darsi un tono. La sfumatura classista era sentita ancora nei vocabolari del primo Novecento, dove si diceva che i figli del popolo dicono babbo, quelli dei signori papà – tant'è vero che ancora oggi i ragazzi viziati da genitori abbienti si chiamano "figli di papà" e non "figli di babbo".

Poi ci fu Giovanni Pascoli, non proprio l'ultimo venuto, che tagliò la testa al toro: disse che non era il caso di rompere le scatole ai bambini e quindi bisognava lasciargli chiamare i genitori come volevano. Quello che però Pascoli non considerava è come vogliono essere chiamati i genitori. Oggi come oggi non so come vanno le cose con le nuove generazioni, anche se credo che prevalga ancora il nobile e autoctono babbo, attestato anche in Dante, anche se dove vivo io mi sembra che anche ai padri più giovani piaccia essere babbo, o ba' e non papà, come piace a Salvini, o peggio ancora, papi, di berlusconiana memoria.

Eppure esiste un compromesso, un appellativo paterno che potrebbe accontentare sia i babbisti che i papisti, ed è quello che probabilmente veniva usato a Nazareth per il falegname Giuseppe, il vero festeggiato del 19 marzo: Abba, un termine ebraico che significa padre, che potrebbe essere una perfetta via di mezzo fra babbo e papà, oltre che il nome della famosissima band che cantava Mamma mia. Più inclusivo di così…