Altro che cambiamento

08.06.2022

Spesso ci raccontiamo che gli italiani vogliono il cambiamento. Ma non è vero. Agli italiani il cambiamento converrebbe, molti di noi lo desiderano, ma i risultati elettorali e la condotta delle forze politiche dicono il contrario: si è disposti a cambiare in continuazione le maggioranze pur di non cambiare l'andazzo.

Dal 1994 ad oggi chi ha governato non ha mai vinto le elezioni, roba sconosciuta in altri Paesi europei. Non che siano state performance memorabili, ma più che bocciare le politiche dei governi gli elettori hanno costantemente punito la distanza fra le promesse e la realtà, solo che lo hanno fatto consegnando la vittoria a chi prometteva l'impossibile, giudicando non impossibili le precedenti promesse ma incapaci quelli chiamati ad attuarle.

Il filo conduttore del non cambiamento è sempre lo stesso: far crescere la spesa pubblica per compensare gli squilibri sociali e di mercato. Il cambiamento vero dovrebbe essere il contrario: far funzionare il mercato, eliminare i parassiti, aumentare i premi al merito e far scendere la spesa pubblica in modo da far calare la pressione fiscale sui cittadini e sulle imprese. Finché non si cambierà l'approccio si lavorerà per la conservazione, pestando l'acqua nell'ormai logoro mortaio.

Quello che molti vogliono sentirsi dire è che i salari italiani sono fermi da trent'anni, ma quello che tutti dovrebbero capire è che da trent'anni è ferma l'Italia. Si deve schiodarla. Dalla metà degli anni Novanta ad oggi la produttività da noi è cresciuta di un terzo rispetto alla media dei Paesi europei, e questa lentezza non è figlia dei troppi cambiamenti ma del non cambiare un accidente.

In tutto questo pesa una giustizia che non è mai cambiata (mentre le leggi cambiano in continuazione), una scuola immobile (mentre ogni anno si cambiano gli esami di maturità), una burocrazia lenta e complicata dove nessuno è responsabile di nulla (mentre lievita promettendo la semplificazione), e così via. Ma ci piace la favola dei salari che vanno aumentati, supponendo che ci siano tesori da espropriare nascosti da qualche parte, con una lettura economica secondo cui basta aumentare la capacità di spesa, quindi i consumi, per rilanciare la crescita. Si è passati dal consumismo, ipocritamente criticato mentre si consuma, ad uno sciocco concetto di crescita per cui se mangi quello che non hai prodotto il pasto si rigenera in base all'appetito.

In occasione della Festa della Repubblica, il presidente Mattarella ha ricordato ai prefetti che non trarremo un serio profitto dai soldi del Pnrr se non li accompagneremo con le riforme. Ma il Parlamento procede lentamente, anche perché fra meno di un anno ci saranno le elezioni e tutti puntano a restarci promettendo protezioni, sovvenzioni, ristori, indennizzi, bonus e quant'altro serva a non cambiare. Tutta roba che non contrasta la ricomparsa dell'inflazione ma la spinge ancora avanti.

Il dato sulla produttività italiana rispetto ai Paesi europei che ho citato prima, è vero ma ingannevole. Vero, perché quelli sono i dati; ingannevole, perché è una media. In realtà c'è un'Italia che cresce e ce n'è un'altra che arretra imbottita di bonus. La prima sa che potremmo crescere alla grande se abbandonassimo la paura e scegliessimo il merito, ma non trova interpreti politici. La seconda ha paura di perdere la protezione e trova una pletora di variopinti rappresentanti politici che le somigliano.

Dato che ho citato Mattarella e la Festa della Repubblica, voglio concludere dicendo che il 2 giugno del 1946 si aveva paura del passato e speranza nel futuro. I figli di quell'Italia hanno paura del futuro e pretendono di vivere nel passato. Altro che cambiamento.