La bellezza salverà il mondo

28.03.2021

"La bellezza salverà il mondo" è una delle frasi più complesse, ambigue e lessicalmente enigmatiche pronunciate da un personaggio di Dostoevskij ne L'idiota e ormai ridotta a una frasetta da assessore di provincia che inaugura un'edizione di Miss Ferragosto di qualche paesotto mentre ringrazia la ditta di salumi che ci ha messo i soldi.

Da un anno a questa parte ci si interroga su come e in che forma la pandemia entrerà a far parte del romanzo dei prossimi anni, interrogativo appassionante che finora non ha prodotto risultati a mio avviso soddisfacenti, a cominciare dal romanzo di Gramellini, che stimo moltissimo ma poteva evitarselo, per finire con il diario di scuola media di Paolo Giordano.

Tuttavia, se la letteratura - che non è un ente astratto ma è fatta da chi scrive - si approprierà di questa realtà, c'è solo da sperare una cosa: che lo faccia con le armi che le sono proprie, quelle, appunto, della letteratura, senza abdicare, senza trascinarsi sui binari della più pigra e tediosa pubblicistica d'autore tracimante in melassa che ci è toccato leggere da un anno a questa parte e che nei momenti narrativamente più arzilli canterellava che era tutta colpa, di volta in volta, del turbocapitalismo, della crisi del 2009, del consumo di carne, dello strapotere di Qualcosa o di Qualcuno cui abbiamo dato la colpa negli ultimi trent'anni secondo triti schemi di pensiero e contro pensiero, e ovviamente sempre con le medesime parole, le vaghezze, le stesse analisi epidermiche diventate ormai dermatologiche, perché tutte basate su eczemi personali.

Purtroppo, quando si ragiona del romanzo dei prossimi anni in chiave di pandemia ecco che si ragiona nello spettro di queste dermatiti intellettualizzate, mentre - per fortuna - il dispositivo della letteratura non travasa significati in scala uno a uno, non accomoda il drappeggio alla realtà e men che meno fa o disfa il nodo alla cravatta del Politicamente Qualcosa. La letteratura non si serve di materia bruta ma rigenera, ricrea (non reinterpreta, non è la serata delle cover a Sanremo) e semmai nasce da qualcosa e non va a finire in qualcosa.

Se la pandemia rientrerà tra i temi che innerveranno la prossima produzione letteraria, auguriamoci che lo faccia con romanzi tra le pagine dei quali non se ne parlerà mai, perché sarà soltanto un'ombra, la proiezione di qualcos'altro. Ma cosa c'entra tutto questo con la bellezza di Dostoevskij? C'entra. Perché è sempre una questione di parole. Di utilizzo che si fa delle parole, parole che giacciono stremate e disidratate al sole di un'epoca in cui anche la forma linguistica della letteratura sta cedendo alla semplificazione, al senso unico e all'unico senso.

Ma la grande letteratura non lavora mai con i significati frontali, perché la verità rivelata della realtà sta nel non darti più nulla da rivelare. Kafka si inventò uno scarafaggio, Melville una balena e Gogol un cappotto. Ciò di cui un grande romanzo parla, non è mai ciò di cui parla. La letteratura è la ricchezza sotterranea di un'invenzione: tra l'uno e l'altra - ma solo per sbaglio e poi trascesa - ristagna la cosiddetta realtà.