Un coraggio da donne

12.07.2023

C'è ancora molta gente convinta che subire uno stupro sia più o meno come essere vittima di uno scippo. Qualcuno ti ha strappato la borsa e subito fai la cosa più naturale: vai dai carabinieri a raccontare quello che ti è successo, anche perché senza denuncia non puoi rifare i documenti. Sei incazzato e sconvolto, ma non tanto da trascurare la prima precauzione, cioè bloccare le carte di credito e il bancomat.

Quando si subisce un torto, nessuno può trattenerci dal chiedere subito giustizia, e se lo facciamo per un portafoglio rubato, a maggior ragione dovremmo pretendere l'immediato intervento della legge per una forma di sopraffazione violenta. L'esitazione, l'indugio di una vittima di stupro nel denunciare vengono guardati con sospetto, come indizi di calcolo, di opportunismo o addirittura di malafede. Sicuramente abbiamo a che fare con una scaltra profittatrice, che prima se la spassa, poi, dopo attenta e ponderata riflessione, tenta di rovinare un pover'uomo o, peggio ancora, un povero ragazzo (specie se costui fa parte di una famiglia in vista), sperando di ricevere visibilità, risarcimenti in denaro o semplicemente la soddisfazione di aver infangato il buon nome di qualcuno più in alto di lei.

Nel frattempo la legge si è evoluta lentamente, ma sempre più in fretta di tanti cervelli. A quasi cinquant'anni dal mitologico Processo per stupro che rivelava il massacro della dignità della vittima esercitato da giudici e inquirenti, le cose non sembrano molto cambiate, come dimostra il recente caso della presunta violenza sessuale denunciata dalla giovane che ha chiamato in causa il figlio di Ignazio La Russa.

Una larga parte dell'opinione pubblica ancora non afferra la particolare natura di questo reato e tantomeno le sue conseguenze. Il legislatore l'ha capito, tanto che ha aumentato a dodici mesi il termine per presentare denuncia in caso di stupro. Invece lo stesso presidente del Senato, che pure un po' di legge dovrebbe conoscere visto che di secondo lavoro faceva l'avvocato (il primo era collezionare busti di Mussolini), per difendere il figlio ha subito tirato in ballo i quaranta giorni che separano il fatto dalla denuncia della ragazza.

Una violenza sessuale non si augura a nessuno, ma sarebbe bello che questi santommaso dello stupro altrui si ritrovassero incastrati nel tritacarne che inghiotte ogni donna quando denuncia uno stupro: visite mediche, indagini sulla propria vita intima, rievocazioni ripetute di un'esperienza che, come tutti i traumi, il cervello tenderebbe naturalmente ad obliterare per proteggersi, sistematica messa in discussione della propria credibilità, moralità, sincerità, esame invasivo dei propri comportamenti, relazioni e perfino l'analisi del guardaroba. Per non parlare delle conseguenze sulla salute fisica e psichica, la stima di sé, la vita intima e quella lavorativa, una volta che l'identità della vittima viene diffusa. Ultima ma non meno devastante, l'immancabile valanga di insulti via social.

Se quelli che assimilano uno stupro a un furto d'auto sperimentassero in prima persona quanto la ricerca di giustizia per questo reato somiglia a una replica più prolungata del reato stesso, forse smetterebbero di domandarsi perché una donna può metterci settimane o mesi per decidere se è il caso di denunciare o se è meglio cercare di dimenticare e di rimettere insieme alla meglio i cocci di se stessi. Scoprirebbero che l'istinto spinge verso la seconda opzione e che ci vuole un gran coraggio per scegliere la prima. Un coraggio da donne.